Cassazione, Ordinanza n. 2357 del 24 gennaio 2024: “in caso di tardiva registrazione di un contratto di locazione pluriennale, il pagamento della sanzione è commisurato al pagamento dell’imposta di registro del primo anno.”

La Cassazione, con ordinanza n. 2357 del 24 gennaio 2024, ha stabilito che, in caso di tardiva registrazione di un contratto di locazione pluriennale, il pagamento della sanzione è commisurato al pagamento dell’imposta di registro del primo anno.
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La Suprema Corte ha accolto il ricorso della contribuente senza rinvio  ed ha riformato la  sentenza di appello che aveva  stabilito che le sanzioni andavano calcolate sull’imposta relativa all’intera durata del contratto.
Ha premesso che il DPR 131 del 1986, al terzo comma dell’art. 17, prevede che, per i contratti di locazione di immobili urbani di durata pluriennale, l’imposta può essere assolta per l’intera durata del contratto ovvero annualmente,
sull’ ammontare del canone relativo a ciascun anno.
Ha poi chiarito, alla luce della giurisprudenza costituzionalmente orientata, che
la facoltà di optare per il pagamento in unica soluzione non modifica il carattere annuale del tributo relativo alle locazioni. Detta facoltà costituisce soltanto un incentivo per incamerare anticipatamente le imposte.
Ciò è tanto vero, ha aggiunto la Cassazione, che il carattere annuale del tributo è riconducibile al fatto che spetta il rimborso dell’imposta in caso di risoluzione anticipata del contratto.
La Cassazione quindi, sulla base delle superiori considerazioni,  ha concluso che l’importo della sanzione da irriogare alla contribuente va ragguagliato all’imposta dovuta per la prima annualità di contratto.
 Avv. Salvatore Torchia

La DC le alleanze le costruisce su un progetto politico e non sul trasformismo e lo sfaldamento degli schieramenti  

Luigi RapisardaC’è un dato comune che fa assomigliare talune forze politiche attuali ai tanti piccoli vassalli di epoca feudale, sempre, affannosamente in cerca di nuove sudditanze verso alleanze più convenienti, per mantenere e accrescere le loro rendite di posizione, ora guardando a quel principe, ora all’altro.

È l’affermazione di una strategia elettorale che sembra abbia definitivamente messo ai margini

la primaria esigenza della spendita del proprio progetto politico quale biglietto identitario per veicolare nell’opinione pubblica i tratti essenziali e significanti della propria proposta politica.

Così il vizio di sempre, che ha caratterizzato questi trent’anni di politiche bipolari, ossia la propensione delle piccole forze a ruoli ancillari o a ragioni di piccole sopravvivenze personali, è ancora una volta dominante.

L’amara considerazione prende spunto dall’intervista di ieri, 7 febbraio, del segretario Cuffaro al giornale Italia Oggi.

Nel dipanarsi delle risposte, quello che domina è un vuoto totale di contenuti progettuali evocatrici di concrete e lungimiranti idee sulle politiche europee per il prossimo quinquennio.

Ma non è tutto!

C’è un rigurgito di tattica politica che è probabilmente il riflesso di pregresse esperienze di questa dirigenza che non si combina con il nuovo corso che la DC proclama di imboccare nel solco di quello stile meno ermetico e più alla luce del sole, unica arma vincente in grado di riportare attraverso valori e metodi che furono soprattutto nei primi decenni dell’esperienza democristiana, il fiore all’occhiello di una prassi politica fuori dagli inganni della demagogia e della mera propaganda, svolta con lealtà e coerenza.

Non è bastato l’appello, di appena qualche giorno fa, ove, con il mio articolo pubblicato su Il Popolo, in risposta alla ripetuta sollecitazione di una nuova Camaldoli, invitavo il partito a delineare subito un Manifesto per l’Europa, per disporsi a quel minimo di riflessioni che non possono – in queste fasi così cruciali dove di qui a pochi mesi e comunque entro questo anno si disegneranno, con le previste elezioni, le nuove governance dei paesi più potenti della terra – farci perdere di vista il disincanto di un’opinione pubblica non più disposta a trangugiare le tante spregiudicatezze di una classe politica sempre più arroccata su posizioni di difesa personale, anziché di missione per il bene comune.

Ci dispiace, e siamo fortemente delusi da questo atteggiamento miope e autoreferenziale del segretario politico, in contrasto con lo stile pluralista e di dialogo, fatto di un permanente confronto che ha  connotato e dovrebbe continuare a connotare la vita e le scelte del partito.

In questa fase servono donne e uomini coraggiosi che perseguano, con determinazione, le nuove frontiere politiche che ci impone la transizione climatica e dell’ecosistema, così da saper individuare, senza cadere nella demagogia o nel populismo, attraverso dei virtuosi palinsesti, il bene comune e la convivenza pacifica nel mondo.

Mentre non è più tempo di recriminazioni e speculazioni elettorali su ciò che non va.

La DC, come ciascuna forza politica,  deve venire allo scoperto con la propria idea di futuro e di quale ruolo debbano assumere le Istituzioni europee affinché siano promotrici di un nuovo modello di sviluppo e di progresso, generatore di pace e di coesione tra i popoli, mettendo in chiaro quali modelli ordinamentali, di politica industriale, di immigrazione, di generale tutela della salute, di politiche formative per i giovani collegati con i primi sbocchi lavorativi e professionali, di valorizzazione dei suoli e dei cultivar, di politiche fiscali comuni e di mediazione autorevole nei rapporti geopolitici, si vogliono perseguire.

Nessuna disattenzione oggi può essere tollerata da parte di questa dirigenza a fronte delle tante incontrovertibili analisi socio-politiche sulle tendenze, sempre più fluide, dell’elettorato(Z. Bauman)ancor meno attratto (una buona metà è giunto alla nausea del voto) dalle frequenti scaramucce politiche e dal parlare principalmente di alleanze, che non toccano mai i reali problemi della collettività.

E tanto più nauseanti, in questo quadro, appaiono gli estenuanti  giochi al pallottoliere in cui si sta dibattendo tutta l’area centrista tesa ad individuare le migliori convenienze in termini di alleanze, nel permanere di una visione personalista e opportunista, corriva ad una politica piegata a miopi interessi di piccolo calibro, mentre si scomodano parole sublimi nel rivendicare una continuazione storica ed ideale con quel grande patrimonio di idee e valori che fu di don Sturzo e di grandi uomini della DC, partito che mai si piegò agli interessi di parte o di settori specifici.

Forse non sarebbe fuor di luogo chiedersi perché nel corrente processo di riaggregazione dei cattolici democratici e popolari, non trova appeal il ruolo di federatore, che per legittima rappresentanza del partito, riconduzione alla storica identità e naturale continuità, competerebbe all’attuale segretario politico della DC?

Così è che la situazione del partito , oggi, volge verso risultati poco lusinghieri.

In Sardegna abbiamo inopinatamente perso i candidati, migrati incredibilmente in altre liste (ma le accettazioni formali di tutti i candidati passati subitaneamente alle altre liste a che sono servite?)mentre le spiegazioni che abbiamo potuto leggere, affidate ai social del partito, della Commissaria F.Donato, appaiono politicamente grossolane e non plausibili.

Per non dire che nello stile della storica DC, dopo un così clamoroso flop il responsabile di quell’incarico si sarebbe subito dimesso.

Comunque un segnale assai allarmante di come viene selezionata questa nostra classe politica.

Non è stato sicuramente il migliore contraltare per rispondere con la giusta fierezza all’inadeguatezza di queste classi dirigenti che distorte dal perseguimento di obiettivi prettamente lobbistici e di parte hanno perso la capacità di saper cogliere nei sentimenti popolari le più urgenti e vitali istanze, destinate a degradarsi in aperte contestazioni sociali, come, in questi giorni, ci è dato di assistere alle proteste degli agricoltori di tutta la penisola.

C’è poi l’Abruzzo, dove al momento, si è con la lanterna a cercare alleanze.

Intanto non sarebbe stato esaltante il gemellaggio con FI, peraltro non so a quale decisione collegiale sia riconducibile, visto che il CN e soprattutto la Direzione nazionale aveva lasciato tutto sul vago.

Ma davvero ci saremmo giovati positivamente di questo sodalizio con un partito fortemente impegnato in un ruolo ancillare e codino in una coalizione il cui progetto politico non coincide, seppur entrambi, FI concretamente, la DC virtualmente( non mi risulta che al momento ne facciamo formalmente parte) avessero fatto riferimento alla stessa matrice europea Ppe?

Non può infatti nascondersi come il disegno della Meloni, seguita dai suoi alleati, si sia incardinato nell’idea di portare dentro in vista dei nuovi giochi per la nuova governance europea il partito europeo dei Conservatori( dove peraltro in questi giorni ha accolto il rappresentante dell’ultra destra francese Zemmour e dell’ungherese V.Orban, estromettendo il Pse.

Una mossa che aveva provato ad anticipare il leader del Ppe M. Weber, al momento rientrato per le critiche all’interno del partito.

Ma la questione è ancora tutta da giocare.

L’operazione, se davvero portata a termine, non sarebbe di poco conto perché darebbe di certo una chiara caratterizzazione populista e nazionalista agli obiettivi europei, con maggiori occasioni di tensione in tutto il continente europeo.

Non c’è poi, nell’intervista di Cuffaro, una sola parola su come è ridotto il Sud e su come dovrà misurarsi con il nuovo meccanismo previsto dalla legge sull’Autonomia differenziata che ha disegnato una maggiore destinazione autoctona del gettito generato entro i territori regionali, con l’effetto – mancando adeguati ed efficaci clausole di perequazione – di un maggiore impoverimento del meridione e la conseguenza inevitabile di un doppio binario con cittadini di serie A e cittadini di serie B.

Insomma un preoccupante scenario  totalmente ignorato in quell’intervista, aggravato dal paradosso che, la dirigenza DC, partito sempre attento, nella sua storica esperienza, alla questione meridionale e premiato nelle elezioni amministrative siciliane di questi ultimi due anni, si ostina a mantenere il sostegno alla giunta Schifani, espressione di queste politiche discriminatorie e di una visione accentratrice del sistema istituzionale che collide con il nostro patrimonio di idee e valori, senza porsi la domanda se non fosse giunta l’ora di ritirare il proprio appoggio alla coalizione di centro destra guidata, appunto, dal governatore Schifani, anzitempo, invece di scegliere la più comoda strada delle imboscate( metodo che non consente di identificare di quale partito siano realmente stati i franchi tiratori), salvando così la faccia rispetto agli alleati, ma perdendo l’occasione di un chiaro e coerente segnale che l’opinione pubblica non avrebbe sicuramente lasciato cadere nel vuoto.

Quella auspicata deflagrazione della giunta Schifani, dilaniata da contrapposti interessi di partito, avrebbe posto sul tavolo i nodi di queste politiche governative e del vassallaggio dei governatori organici al progetto meloniano.

Una mossa che, inserendosi nella guerra per bande che è in atto dentro FI, avrebbe connotato la DC come partito affidabile e coerente ai propri principi.

Non minor peso assume su questo quadrante il nuovo organigramma apicale del partito che sta disegnando il loro leader Tajani, mettendo in ombra esponenti come lo stesso Schifani ed altri big storici di FI.

In politica si sa che le emarginazioni si pagano sempre, o con le scissioni o con le migrazioni verso altre forze, ma le conclusioni le sanno trarre bene gli elettori.

Di certo in quell’orizzonte si sta addensando una forza autonoma che sicuramente salderà Noi moderati con la frangia capeggiata da Schifani per una lista autonoma.

Il tentativo, se trova conferma, appare assai rispettabile, ma non credo possa pretendere una riconoscibilità come espressione identitaria di quel centro che si incarica di essere l’ago della bilancia del nostro sistema politico.

La principale ragione sta nel fatto che in questo progetto politico non si intravedono tutte quelle declinazioni programmatiche che caratterizzano per antonomasia l’area centrista di cui è naturale espressione l’area cattolico-democratica e popolare, il cui precipuo obiettivo è di contribuire a fare da argine, nel quadrante europeo, ad un asse di governo delle Istituzioni europee che resti imperniato sulla cosiddetta maggioranza Ursula, pur auspicando a presidente della Commissione Mario Draghi, e, sul piano interno, operando in difesa della nostra Carta costituzionale al riparo da tutti quei propositi di riforma in atto( Premierato) che squilibrandone i poteri, volgono in direzione di un accentramento di parte di essi in capo all’esecutivo, con ribaltamento del principio della centralità del Parlamento.

Ne’, mi pare, possano avere titolo tutte quelle operazioni trasformiste tese a contaminare il processo di un più ampio rassemblement centrista, se non nella ineludibile condizione di abbandonare ogni condivisione del disegno accentratore della premier Meloni.

Mentre il più recente tentativo di imbrigliarsi in un cartello o con un’ alleanza elettorale con Mastella e Renzi, sconterebbe subito lo scarso appeal che quest’ultimo registra oggi di fronte ad un elettorato disorientato dai tanti funambolismi con cui si è caratterizzato, con iniziative, in questi ultimi anni, spesso in conflitto con il suo ruolo di parlamentare della Repubblica, disseminando ipotesi di conflitto d’interessi, che da più parti si sollevano, a partire dalla più clamorosa, ossia le sue sistematiche consulenze, come sostenuto da Calenda, all’Arabia Saudita: regime notoriamente totalitario e oscurantista.

C’è quanto basta per fare dentro il partito un’ampia riflessione.

10.02.2024

Luigi Rapisarda

 

La Santa alleanza delle destre su autonomia, giustizia e premierato: un cinico disegno sulla pelle del meridione  

Luigi RapisardaLa questione meridionale non è di certo dell’altro ieri.

Già al tramonto dell’ottocento e soprattutto nell prima parte del novecento eminenti studiosi del fenomeno, come Giustino Fortunato, prima, e Pasquale Saraceno, per buona parte del secolo scorso, avevano puntato il dito contro le politiche dei governi dell’Italia unita – e Saraceno anche dell’Italia repubblicana – incapaci di delineare progetti concreti e lungimiranti per dare al sud adeguate opportunità di crescita economica e sociale.

Ora un ulteriore capitolo si sta scrivendo ad opera di questa maggioranza di governo con l’approvazione di ieri, in Senato, delle disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e di qui a qualche settimana alla Camera.

Una riforma che, non è fuori luogo affermare, sta ponendo tutti i presupposti per consegnarci un’Italia sfigurata e irriconoscibile, ove il meridione non troverà nuova linfa per rigenerarsi, anzi si troverà sospinto in una condizione sempre più asfittica, sia da un punto di vista economico che sociale.

Siamo senz’altro di fronte ad una riforma sfrontata e temeraria che porterà come primi effetti un profondo divario tra le Regioni del nord e tutta l’area del meridione.

Sicuramente tantissimi italiani ieri avranno idealmente intonato l’inno di Mameli unendosi ai tanti parlamentari che ne scandivano vibratamente le eroiche rime.

Ma quei tanti italiani avranno al contempo avvertito un senso di profonda delusione ponendo mente all’altrettanta ingannevole e opportunistica politica ventennale di questa sinistra, oggi incarnata dalla Schlein e nel 2001 da D’Alema, che per ingraziarsi il favore della Lega di quel tempo, dichiaratamente secessionista, si inventò la riforma del Titolo V, spostando in modo disordinato, e talvolta irragionevole, competenze e funzioni con l’effetto di facili contenziosi tra Stato e Regioni.

 Oggi quei nodi sono venuti tutti al pettine perché quella riforma Costituzionale del 2001, fatta in fretta e furia, con una maggioranza risicata,ha dato la stura, nella più impensata delle occasioni, alle destre di governo, per varare una legge di attuazione delle Autonomie regionali, che è un bazooka contro il meridione e la povertà.

Una riforma che suona sinistra contro l’art.5 della Costituzione:“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali..”, che non può essere giammai disgiunto dal principio universale di uguaglianza previsto dall’art. 3 che sancisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge..” e prosegue al secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”.

Così, dal momento dell’approvazione, ogni Regione potrà chiedere e negoziare con il governo forme devolutive di competenze e di risorse.

È evidentemente la porta per disseminare nel paese un regionalismo asimmetrico dai tratti variabili tra un territorio regionale e l’altro, basato sulla possibilità di poter trattenere buona parte del gettito fiscale proveniente dal territorio per finanziare servizi e funzioni di cui si chiede il trasferimento.

Se apparentemente può sembrare una sorta di sussidiarietà a tutto vantaggio delle prossimità delle funzioni e dei servizi al cittadino, in realtà manca nel testo di legge approvato ogni riferimento a validi meccanismi di perequazione onde evitare abnormi disarmonie normative e contesti discriminatori tra regioni ricche e regioni meno fortunate per le peculiari caratteristiche del loro territorio, ove le risorse e il gettito risulterà assai più scarso.

E a poco vale l’argomentazione che una maggiore responsabilizzazione di ciascuna Regione può spingerle a tener fede concretamente ad obiettivi di maggior efficienza e razionalità dei servizi.

Quello che invece appare essere più verosimile è la preoccupazione che una tale devoluzione senza appositi contrappesi di natura perequativa nazionale in capo allo Stato, e senza che sia determinato per legge che ogni attività devolutiva, pur nelle materie non condizionate alla effettiva determinazione dei Lep, non possa avere avvio se non siano stati, nel frattempo, individuati i livelli essenziali di prestazioni che ogni regione dovrà rispettare.

Questo salvacondotto che la normativa ha assicurato ad una Lega scalpitante – voluto a tutti i costi da Calderoli, maestro nel disseminare marchingegni normativi, famosa la sua legge elettorale di qualche anno fa, da lui stesso definita una “porcata” – pronto a mettere in pratica e portare a compimento il suo vagheggiato disegno secessionista, non farà che accrescere le disparità e i profondi divari che già affliggono considerevolmente tanti territori regionali, espressione del sud d’Italia, con la conseguenza di accentuare le già enormi sacche di povertà che caratterizzano le Regioni del meridione.

Oltre a questo, non è da sottovalutare l’Inganno semantico di questo testo come approvato in prima lettura in Senato, che, con la previsione di accordi comuni tra regioni può aprire facilmente la breccia per la formazione di macro regioni, anticamera di una  ipotetica evoluzione secessionista: vecchio pallino della Lega nord di Bossi.

In questo scenario i cattolici in politica, ed in primis la nuova Democrazia Cristiana che ispirandosi ai principi della dottrina sociale della Chiesa e in consonanza con i dettami dell’Umanesimo sociale, che metodicamente Papa Francesco ci ricorda di non espungere mai dagli obiettivi primari di ogni azione politica, non possono restare a guardare.

È evidente a questo punto quanto sia urgente e doveroso il portare a compimento la ricomposizione dei diversi filoni culturali, riconducibili alla più vasta area democristiana e convergere insieme alle forze liberali e riformiste, distanti da ogni suggestione populista, sovranista o massimalista e qualunquista – in una sorta di arco politico che nel riproporre lo schema della cosiddetta maggioranza Ursula, magari con l’auspicio di avere alla guida della prossimo Commissione europea, Mario Draghi – in una lista unitaria nel nome e secondo i principi del popolarismo, come virtuosamente declinati dal Manifesto, Liberi e Forti, da don Luigi Sturzo, e del riformismo liberale, che riporti il tema del meridionalismo tra le priorità programmatiche da affrontare nel paese e nelle future iniziative da parte dell’Ue.

Sarà di certo una sfida assai ardua, ma ancora più motivante, dato che il sud è sembrato essere, secondo diversi analisti, la vittima sacrificale di un cinico baratto tra la premier Meloni, che, in una sorta di Santa Alleanza con Salvini e Tajani, non avrebbe avuto remore a subordinare il suo placet nell’ fare approvare un regionalismo differenziato, targato Lega, senza efficaci bilanciamenti, e dare mano larga sulla riforma della giustizia, proposta da Nordio( che riprende, grosso modo, le linee guida di Berlusconi su questa materia), su cui la premier ha avuto sempre qualche diffidenza, tant’è che lo ha spesso fatto tallonare dal sottosegretario Del Mastro, per assicurare al suo progetto di riforma del premierato un percorso senza ostacoli, stante la doppia approvazione che questa riforma costituzionale richiede ai sensi dell’art.138 della Costituzione da parte di ciascuna Camera a distanza di almeno tre mesi tra una votazione e l’altra ed ovviamente sullo sfondo il probabile referendum nell’ipotesi in cui, come sarà prevedibile non fosse approvata, in seconda lettura, da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

Siamo insomma nel mezzo di una deriva autocratica che sta facendo scivolare il paese verso una democrazia plebiscitaria, tendente a modelli di disomogeneità sempre più accentuati in tema di ordinamenti sui servizi primari, aggravati ora dal fatto che con l’approvazione della riforma entreranno nella devoluzione regionale, la giustizia, limitatamente alla competenza dei giudici di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Per non parlare poi della sanità, ove nessuna subordinazione e nessuna conditio sine qua non, sulla governance del sistema sanitario regionale,

come lasciato intendere, stante la farraginosità del sistema previsto, dallo stesso prof. Sabino Cassese, presidente della Commissione incaricata della definizione dei Lep.

In altre parole si è lasciato campo libero ad una sorta di generalizzata deroga al principio di unità della nazione, anche su servizi di primaria natura, deputati ad assicurare l’uguaglianza dei cittadini in tutto il territorio nazionale.

Per non dire dell’ulteriore prevedibile accentuarsi dell’atavico squilibrio tra nord e sud.

La percezione più evidente è perciò che il meridione, con questa riforma, prossima all’approvazione definitiva, è stato abbandonato a se stesso.

E i governi regionali che fanno?

In particolare la regione siciliana dove nella giunta Schifani siedono assessori eletti nelle liste della DC?

Davanti a una generale prevedibile prospettiva di ulteriore depauperamento sociale ed economico del meridione,  e in mancanza di azioni decise del governatore di Forza Italia che assicurino la concreta partecipazione al programma di investimenti offerti dalla Ue con riguardo all’attuazione del Pnrr, per i riassetti e i miglioramenti infrastrutturali in quei territori comunali fragili e afflitti da strutture obsolete,  maggiormente prioritari financo rispetto ai velleitari progetti, quale appare ad oggi essere il ponte sullo stretto, vien da chiedersi: come intende muoversi la DC regionale in Sicilia e che risposte propone agli agricoltori al sistema produttivo alle tante carenze nella sanità pubblica, dato che, oltre ad essere parte di quella maggioranza di centrodestra, ne condivide, appunto, le responsabilità in giunta?

Non sarebbe il caso di mettere in mora il governo centrale e se del caso far venir meno il sostegno alla coalizione guidata dal governatore Schifani, se resta supino alle prepotenze di ministri che preferiscono giocare con il destino dei territori pur di accontentare lobby e alimentare oligarchie economiche mettendo avanti la sopravvivenza elettorale del proprio partito?

25.01.2024

Luigi Rapisarda

 

Cassazione, Sentenza n. 34855 del 13 dicembre 2023: “il termine di 48 mesi per chiedere il  rimborso di versamenti per imposte non dovute,  si applica soltanto quando i versamenti non erano dovuti fin dall’origine.” 

La Cassazione, con la sentenza n.34855 del 13 dicembre 2023, ha ribadito che, il termine di 48 mesi per chiedere il  rimborso di versamenti per imposte non dovute,  si applica soltanto quando i versamenti non erano dovuti fin dall’origine.
Quando,invece,  il diritto alla restituzione sia sorto in data posteriore a quella del pagamento dell’imposta,  il termine è di due anni dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
Si tratta di una sentenza interessante, in tema di rimborso di  somme pagate per imposte non dovute, anche  se viene ribadito un principio che la Suprema Corte aveva già affermato in passato.
In pratica vengono precisati i termini entro i quali deve essere presentata la domanda di rimborso .
Ed allora, il termine è di 48 mesi dal versamento, ai sensi dell’art. 38 del DPR n.602 del 1973, qualora si tratta di versamenti non dovuti fin dall’origine. In altre parole effettuati dal contribuente  per errore.
Quando invece il diritto alla restituzione sia sorto in data posteriore a quella del pagamento, allora è applicabile l’art. 21 comma 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.
Di conseguenza, in questo caso, l’istanza di rimborso può essere presentata entro due anni dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
 Avv. Salvatore Torchia