Luigi Rapisarda La consultazione referendaria di questa scorsa settimana e il contestuale voto amministrativo in diverse regioni del nostro paese hanno messo in palese evidenza due effetti, apparentemente sincretici, perché ascrivibili alla stessa causa: l’evidente disallineamento tra paese legale e paese reale e la tendenza verso un partito che non c’è.
Ad essi si aggiunge un terzo potenziale effetto che al momento possiamo dire solo di natura accademica: l’eventualità di una fine anticipata della legislatura se nei prossimi appuntamenti elettorali, previsti a maggio del nuovo anno, ove sono in ballo le amministrazioni comunali dei più importanti capoluoghi del paese,dovesse ulteriormente rafforzarsi la vittoria del centrodestra nei territori comunali..
La prima asimmetria la si ricava dall’esito del voto referendario espressosi nell’oltre 30% dei No.
L’altra anomalia è data dall’ampio consenso, in qualche caso plebiscitario, che si è totalizzato nelle quattro regioni ove sono stati confermati i precedenti governatori.
Entrambi risultati sorprendenti.
E se da una parte il No, ne disvela la parte nascosta di un elettorato assai poco incline alla propaganda spicciola e superficiale su una riforma voluta con voto pressoché unanime del Parlamento.
Per converso, nelle regioni ove si dovevano rinnovare i governatori ed i consigli, si è invece polarizzata un’ampia percentuale di consensi a vantaggio degli amministratori che evidentemente, a giudizio di tanti elettori di quelle aree regionali,avevano ben amministrato il territorio: giocando sicuramente molto, dalla loro parte la strenua difesa delle loro comunità nei frangenti più difficili della lotta al coronavirus.
Una riconferma, che deve molto ad una oculata capacità nell’aver saputo trovare, nell’aggregazione delle componenti a sostegno del loro progetto di amministrazione, il giusto equilibrio tra forze, pur anche eterogenee, in un quadro di sapiente moderatismo.
Con questa strategia essi hanno costruito un favorevole fattore di attrazione per i tanti elettori gravitanti, a seconda dell’offerta politica, nell’area dell’astensionismo, perché poco inclini a farsi ingabbiare nei meccanismi elettorali che tendono a polarizzare il consenso tra le forze populiste ed antieuropee.
In questa strategia hanno giovato molto le liste personali, cui sono ricorsi i governatori, soprattutto per dare il segno di una esplicita differenza con le identità dei rispettivi partiti di riferimento.
Un tentativo, ben riuscito di smarcarsi dalle estremizzazioni populiste ed antieuropeiste(tipiche della Lega e Fratelli d’Italia) o dalle ambiguità del Pd (ne è emblematico esempio la giravolta sulla riforma del numero dei parlamentari, passando dal No al Sì)e han finito per fare davvero la differenza nella conta dei voti, surclassando di molto – clamoroso il caso Veneto – le forze politiche di riferimento o come nel caso della Puglia con risultati del partito di appartenenza, in percentuali ben al di sotto delle aspettative.
Persino i sondaggi, a parte il caso Veneto ed in qualche modo la Liguria, non erano riusciti a pronosticare una vittoria certa.
Mentre si è confermata ovunque la prevista debacle dei 5Stelle.
Così non appare fuor di luogo chiedersi quale artificio ha portato questi governatori a sfondare, surclassando ampiamente competitori che fino all’ultimo giorno della campagna elettorale sembravano contendere seriamente la vittoria in quei territori?
La risposta richiederebbe un’analisi articolata.
Tuttavia non ci viene difficile abbozzare alcune linee che possiamo ricavare da quest’ evento elettorale.
La prima singolarità che emerge in questa nostra breve disamina del voto ci sembra l’evidenziarsi nel bacino elettorale di un partito che non c’è.
Una percezione che, prendendo a spunto il sorprendente 30% a favore del No nel Referendum, possiamo agevolmente ricavare come segno di una diffusa immanenza nella coscienza di tanti cittadini di un bagaglio di ideali e di valori e di aspettative che non si riscontrano nelle azioni politiche e nei programmi delle tante forze politiche oggi in campo.
La ragione è da ricondursi, come già detto, nella degenerata polarizzazione dell’offerta politica degli odierni partiti che sempre più fanno leva su un linguaggio e progetti demagogici dalle forti suggestioni populiste o con ricorso ad iniziative connotate da dottrine anti industriali, anti sistema, oltre a permanenti propositi giustizialisti e a politiche di forte ed improduttivo assistenzialismo che non aiutano il Paese ad uscire fuori dalle secche di una acuta recessione, che la prolungata interruzione del sistema produttivo, durante la fase 1 della pandemia da covid-19, ha fortemente aggravato.
E non è cosa da poco, in una così forte radicalizzazione del sistema politico, il contributo portato da quelle minoranze, oggi, rappresentative di valori liberali, riformisti e cattolici, che in una lotta così impari, han fatto da argine, pur con scarsi spazi nei media, e con una rete territoriale non certo capillare.
Uno sforzo valoroso e davvero sorprendente che ha controbilanciato la deriva demagogica del sistema, facendo riemergere nel paese l’esigenza di una riposizionamento del baricentro politico verso linee programmatiche e progettuali di amministrazione più moderata e partecipativa.
Tutto il contrario dei modelli che hanno ispirato l’indirizzo politico dei governi, da Renzi in poi, che hanno caratterizzato questa e l’ultima parte della precedente legislatura, dove, con permanente propaganda politico-mediatica si sono poste al centro e strumentalizzate tematiche assai divisive,come immigrazione, politiche del lavoro, sbilanciate perché poco attente alla salvaguardia dell’occupazione, furori anti casta, prescrizione dei processi, pillole abortive, insomma tutto un armamentario capace di suggestionare e captare il crescente malcontento che già le impietose politiche di austerità( a partire dal governo Monti)avevano moltiplicato a dismisura.
Mentre i tentativi di riportare su posizioni di un maggior equilibrio gli interventi governativi da parte del Pd, non sono sembrate altro che mosse ad effetto tese solo a proseguire la tipica politica degli annunci di memoria renziana, con il concreto rischio di ritrovarci ancora per altri tre anni in una legislatura a totale egemonia 5S, ancorato saldamente all’irrazionale “mission”, fatta di antipolitica, pauperismo, decrescita felice, dottrine anti industriali e giustizialismo.
In un tale fermento di istanze quali forze raccoglieranno questi chiari segnali di un cambiamento di passo che parte del Paese chiede, nella strenua difesa di quel patrimonio di valori, principi e idealità che furono il faro con cui i nostri costituenti disegnarono l’archetipo e la struttura della nostra Costituzione, nel massimo bilanciamento possibile, per assicurare l’espressione più efficace della rappresentanza della sovranità popolare e un virtuoso equilibrio tra i poteri?
Valori e ideali che il partito di maggioranza relativa, in Parlamento ma non più nel paese, avverte essere d’intralcio al disegno di destrutturazione della nostra Carta fondamentale, avendo in proposito di andare verso forme di democrazia diretta o verso, ancor più aberranti, sorteggi dei rappresentanti, come ha lanciato,come guanto di sfida,il guru dei 5S, Beppe Grillo.
Una degenerazione che con il chiaro responso referendario di più del 30% del No, il paese intende respingere, mentre mostra crescente gradimento verso politiche di fiducioso europeismo e di equilibrato riformismo, capaci di assicurare la più corale partecipazione per una poderosa e solida ripartenza del sistema economico, senza infingimenti e senza distribuzioni a pioggia, in modo che si rivelino realmente fattore di autentico sviluppo e progresso.
Una contrapposizione che mette allo scoperto un elettorato razionale e meno emotivo, e l’emersione di una tendenza che se si confermasse sposterebbe l’asse politico del nostro sistema.
La cui connotazione dei tanti elettori che hanno mostrato contrarietà con il voto del Parlamento, secondo l’analisi statistica fatta,qualche giorno fa, sul Corriere della sera, da un noto sondaggista, che ha provato a delinearne il profilo, sarebbe sostanzialmente costituita da “ studenti , colletti bianchi, giovani imprenditori e laureati, residenti nei grandi capoluoghi e particolarmente nei centri storici”(qualcuno aveva già parlato di popolo delle Ztl).
Insomma tutto il concentrato di acculturazione e buona informazione sulle tematiche, insomma il miglior antidoto contro gli effetti distorti della propaganda populista e della demagogia a buon mercato.
Una preziosa risorsa umana, dinamica e dalle capacità innovative che alletta tante forze politiche nelle strategie di avvicinamento alle multiformità socio-culturali.
Ma che non trova facile collocazione in nessuno dei partiti oggi presenti,ove, ad eccezione di quel che resta di Forza Italia, sono tutti caratterizzati, a destra, da accentuate venature populiste, sovraniste ed antieuropeiste e, a sinistra, dall’egemonia del movimento 5S, pur non essendo più, nel paese,il partito di maggioranza relativa, ove predominano giustizialismo e politiche antisistema, che provocano stalli frequenti all’azione di governo.
Fattori non certo estranei all’allontanamento di una larga parte di elettorato che ha trovato occasione nella consultazione referendaria e nelle regioni interessate al rinnovo delle amministrazioni, di esprimersi e di premiare l’affermazione di politiche dei territori assai orientate alla mediazione e al concerto di un più ampio intreccio di valori ed aspettative, normalmente espressione di politiche moderate di centro come le avevamo conosciute in altri tempi.
Una realtà politica che come “ l’Araba fenice ” oggi fa fatica a prendere corpo ed interfacciarsi nel panorama parlamentare ormai diviso nettamente tra forze populiste, Lega, FdI e forze giustizialista ed antisistema 5S, mentre il Pd non riesce ancora ad uscire da una decennale ambiguità.
Con il risultato di un vuoto al centro del sistema rappresentativo, accentuato dalla polarizzazione di proposte politiche in direzione di estremizzazioni delle risposte che i partiti hanno in questi anni agitato e promesso agli elettori, dopo averne rappresentato o strumentalizzato ad arte la vulnerabilità del Paese e l’incertezza del futuro.
C’è allora da interrogarsi come mai quelle tante timide iniziative che da qualche anno si sono sperimentate , senza riuscirci, per favorire l’aggregazione di filoni liberali, cattolico-popolari e riformisti, in un quadro di saldo atlantismo e rinnovato europeismo, e che non avevano trovato ad oggi attrattiva e seguito e che furono il perno di politiche moderate e di ampia mediazione dei corpi intermedi e delle istituzioni territoriali fino ai primi anni ‘90, siano state in questa consultazione il periscopio per la riconferma dei governatori?
Evidentemente la presa d’atto, anche da parte di questi amministratori, che la politica strillata e i toni aggressivi finiscono per essere divisivi ed allontanano l’elettore.
In questa consapevolezza, ciascuno di questi governatori ha saputo bilanciare politiche di tutela territoriale e servizi alla persona, mettendo al bando ogni forma dei toni aggressivi che oggi caratterizzano l’armamentario propagandistico di buona parte delle forze politiche.
Preoccupano invece la reazioni che provengono dal versante dei 5S, pronti ad andare avanti nella direttrice dello smantellamento del sistema della rappresentanza con la proposta shock di Grillo di preferire il sorteggio dei rappresentanti del popolo.
Propositi bellicosi che,in un arco parlamentare ove, a parte piccole forze liberali, cattoliche e riformiste, uniche a sostenere apertamente i contrari al taglio lineare dei parlamentari, nessuna delle forze politiche si è opposto, e a dominanza del movimento 5S, che, pur non essendo più maggioranza nel paese, anzi ridotto ai minimi termini, secondo i sondaggi a circa la metà, o forse anche meno, dei consensi del 2018, condiziona l’agenda parlamentare e l’azione governativa, rischiano di non assicurare la giusta tutela a quella coscienza civile che si è espressa con il No.
E mentre il paese attende le necessarie misure per avviare la ripartenza, su cui incombe la preoccupante risalita dei contagi, l’azione governativa divaga, spendendo energie in rattoppi e ribaltamenti di scelte normative adottate appena un anno fa, per tenere a bada i nuovi alleati il cui unico scopo, in questa avventura governativa, è stato di non farci andare al voto e scongiurare una vittoria certa del centrodestra.
E come in un gioco del lotto, anziché concentrarsi su una credibile elaborazione del recovery plan, si sta adoperando a disfare i tanti decreti che ci avevano ammanniti con il Conte 1.
Così in un mix tra la trovata di Renzi, che ha propiziato questo governo, e la spregiudicatezza dei 5S, il Pd si è giocato la sua credibilità, già compromessa da tutta una serie di ambiguità precedenti, durante la fase del governo Renzi, con le giravolte che ha dovuto fare, a cominciare dalla conversione della propria posizione, originariamente contraria ad appoggiare la riforma del taglio dei parlamentari,
Tuttavia, in questo scenario,ragionando per assurdo, ci chiediamo: nel caso di un governo di marca centrodestra a trazione Salvini, che sarebbe scaturito nel quadro di esasperata polarizzazione in cui si era giunti nell’estate dello scorso anno, saremmo riusciti, in un contesto di acceso antieuropeismo della Lega e di un sovranismo, sebbene dai toni più morbidi, del partito di Giorgia Meloni, a portare a casa un intesa come quella siglata dal nostro premier?
Che con un magistrale capovolgimento di linea, non più antieuropeista ma europeista fino all’osso, il premier Conte che, al suo esordio, unitamente al suo movimento di riferimento, non avevano fatto mistero di imprese paragonabili ai mitici Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, ossia alla conquista della purezza, a beneficio di tutti (ma ogni giorno abbiamo la riprova di come sia stato solo un illusorio slogan per impadronirsi e mantenere ad ogni costo le poltrone del potere) è riuscito a ribaltare, in un intreccio di mimetismo ed abilità nella mediazione, convincendo i nuovi burocrati europei della serietà degli impegni assunti.
Anche se decisive sono state, nel riconoscere al nostro paese, pesantemente colpito dalla pandemia, una così copiosa messe di finanziamenti attraverso il recovery fund e gli ingenti prestiti della Bce, la nuova empatia della presidente Von der leyen e l’intercessione della Cancelliera Merkel e del Presidente Emmanuel Macron, che hanno contrastato il serrato catenaccio messo in atto dai cosiddetti paesi frugali.
Tuttavia ad oggi non vediamo ben incardinati tutti i preliminari per la elaborazione del piano di impiego dei finanziamenti che l’attuazione del recovery fund ci impone di disegnare all’interno del ventaglio di interventi nelle tre macro aree indicateci dall’Ue.
Una impreparazione con cui scontiamo decenni di incapacità nella individuazione di quegli ineludibili investimenti strategici.
Ma basta guardare agli scadenti risultati sui fondi strutturali europei, di cui negli anni non abbiamo saputo approfittare che di poche percentuali rispetto ai budget messi a disposizione, spesso costretti a restituire.
Del resto se pensiamo che in questi due anni non si è riusciti a dare risposta ai tavoli aperti sulle tante aziende pronte a chiudere o a licenziare massicciamente,non essendo stati capaci di disegnare i contorni di una nuova politica industriale, in grado di avviare un processo di ammodernamento infrastrutturale, quale concreta speranza possiamo nutrire che si riesca a superare agevolmente lo scoglio delle verifiche da parte della Commissione europea?
Per questo ci auguriamo che il governo non lasci cadere nel vuoto l’accorato appello rivolto dal presidente di Confindustria Bonomi che ha propiziato sui fondi europei un patto per l’Italia.
A tal proposito molto interessante ci sembra l’auspicio che dalle pagine de Il Messaggero, l’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienza Sociali, sul modello del pensiero keynesiano, postula una nuova rete di protezioni sociali che mettano al centro del sistema la persona.
Un welfare, che già lo stesso Keynes aveva preconizzato come “acquisitivo”.
Ossia non solo economico, ma che approcci un “..orizzonte civile o delle “capacitazioni”…”capabilities” come preferisce dire Amartya Sen..”.
Augurandosi una maggiore valorizzazione del terzo settore, attraverso l’ampliamento del principio di sussidiarietà circolare, a proposito della scuola, così prosegue: “L’obbligo scolastico come obiettivo di welfare non basta più. L’educazione è stata abbandonata a favore dell’erogazione di istruzione, quando va bene. La scuola non può essere una fabbrica dove si fa solo formazione. Deve essere un luogo educativo..”.
In questo contesto, a maggior ragione, attendiamo che quel centro, vuoto, del sistema politico, che la polarizzazione delle forze in campo ha lasciato scoperto e non rappresentato, trovi coraggiosi protagonisti perché non resti inevasa la forte domanda che è venuta da una parte dell’elettorato.
Beninteso, un centro come “ luogo della ragionevolezza”, come ha ben messo in evidenza il politologo A. Campi, sul quotidiano Il Messaggero di qualche tempo fa, che perciò rischia di essere fallace se si intendesse come mero posizionamento per qualunque alleanza o formula di governo.
Un tale modo di declinare il centrismo porta inevitabilmente ad una visione deteriore della politica, perché evoca mimetismo e trasformismo ideologico e rischia di essere opportunismo privo di valori.
E ancora, egli avverte,non può essere confuso ”..il centro come spazio politico-parlamentare con il centro in senso sociologico-culturale e come area di opinione….Ciò dipende dal fatto che sul piano della mentalità collettiva e degli orientamenti di opinione il centrismo non sempre fa rima con moderatismo”.
Ed infine conclude:”..proprio perché la demagogia sembra imperare nella campagna elettorale, come nell’attività dei governi, sempre più forte appare il bisogno di forze politiche capaci di praticare l’arte della mediazione e del compromesso, dotate di un forte senso delle istituzioni, mosse da una solida visione del bene pubblico e non solo da interessi particolaristici”.
Noi aggiungiamo la speranza che si attinga a quel patrimonio di valori e ideali liberali,cattolici,popolari e riformisti, per riportare nel sistema, spirito di servizio, coesione sociale, competenza, lungimiranza e progresso virtuoso e non ingannevole.
Auspichiamo intanto, nel breve periodo, che le attuali forze politiche sappiano tradurre queste istanze nelle giuste riforme che dovranno seguire all’esito del responso referendario mettendo mano ad una legge elettorale che colmi il gap di rappresentanza che il corposo taglio dei parlamentari ha causato, magari con un proporzionale alla tedesca e l’ipotesi di una sfiducia costruttiva, così da evitare crisi al buio.
E con essa aggiornare alla nuova realtà anche i regolamenti parlamentari e diversificare le funzioni delle due Camere,per superare le disfunzioni del bicameralismo perfetto, che pure fu adottato, caso unico tra i paesi dotati di una Costituzione, per assicurare una costruzione delle leggi con il massimo della ponderazione, dopo l’esperienza legislativa del “Ventennio”,che aveva esautorato il Parlamento.
Diversamente potrebbe acuirsi il contrasto di volontà tra corpo elettorale e rappresentanza parlamentare e l’occasione non appare lontana, dato che a maggio abbiamo il rinnovo dei sindaci delle amministrazioni comunali di Roma e delle più grandi capoluoghi del paese, ove peserà anche l’esito di questa consultazione che ha accentuato la presenza soverchiante di governatori di centrodestra nelle regioni, in un rapporto di 15 a 5.
Rapporto che di già evidenzia ampia disarmonia con l’indirizzo di governo e con la maggioranza che lo sostiene certificando un consistente disallineamento tra paese legale e paese reale.
Uno scollamento che può avere ambivalenti riverberi sulla dimensione delle convergenze attuative e del grado di collaborazione che queste istituzioni territoriali dovranno svolgere nell’attuazione e nelle autonome determinazioni, nel caso di competenza esclusiva, del piano di investimenti che il governo, oramai espressione di minoranza nei territori, è chiamato a predisporre entro metà mese,nel solco dei canoni dettati dalla Commissione, dei corposi sostegni finanziari promessi dalla Ue, che impegneranno per decenni le future generazioni e condizioneranno, nel bene o nel male, la fisionomia del nuovo modello di sviluppo che ci siamo impegnati a mettere in campo.
C’è infine un terzo effetto cui accennavamo all’inizio.
Ossia la centralità parlamentare che connota il nostro sistema non può non coniugarsi con il principio base della sovranità popolare legate indissolubilmente in un rapporto di mezzo a fine, sicché appare indispensabile la sintonia tra le istituzioni e il volere popolare.
Ora se noi rapportiamo questi corollari alla situazione attuale davvero riusciamo a ricavare tanta reale assonanza dopo i risultati di questo appuntamento elettorale?
A guardar bene i dati non si direbbe!
E le ragioni non ci paiono poche.
In primo luogo perché un risultato così clamoroso di oltre il 30% dei No ci impone, come dicevamo, una seria riflessione sull’assonanza con i nostri rappresentanti,che nell’ultima doppia lettura, nel procedimento di revisione costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, ebbe a votare pressoché all’unanimità, 97,5% dei favorevoli.
Di poi perché non può sottovalutarsi il fatto che abbiamo un territorio regionale amministrato per la massima parte da governatori e coalizioni di centrodestra,15 su 20.
Ora è chiaro che se dobbiamo tener conto di quanto dice la nostra Carta:” La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato’, il problema della assonanza tra rappresentanti e rappresentati pone delle questioni di compatibilità piuttosto rilevanti, sul piano della coesistenza di linee di indirizzo assai divergenti tra questi diversi organismi.
E se pure è vero che non possono essere posti su un medesimo piano di comparazione per i diversi livelli di attribuzioni e funzioni, che nel caso delle articolazioni regionali non possono essere di certo, fuori dalle proprie competenze, indirizzi politico-amministrativi in conflitto con le statuizioni governative che impegnano tutto il territorio, non può negarsi che se le dissonanze tra progetti di governo del territorio e politiche regionali sostenute da competenze esclusive si rendono poco conciliabili o antinomiche, aumentano i casi di aspri conflitti e di diatribe applicative sui territori, con inevitabile ripercussione sul criterio di buon andamento che caratterizza l’azione amministrativa dei diversi organi della nostra Repubblica(emblematico il caso delle Ordinanze, in materia di covid-19, del Sindaco di Messina prima e del governatore Musumeci dopo che hanno innescato un contrasto netto con provvedimenti governativi.
Segnali inquietanti ed inequivocabili che non devono farci girare dall’altra parte e lasciare alla magistratura,ogni volta, il compito di risolvere l’ennesima contrapposizione.

Luigi Rapisarda

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