In una ridente giornata di aprile, ancora attanagliati dalle restrizioni anti-covid, in attesa che il piano vaccinale si dispieghi nella sua massima potenzialità, con l’arrivo di nuove forniture, ho avuto il piacere di soffermarmi,via web,con il Sen. Renzo Gubert, Presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana , discutendo sugli attuali scenari dell’azione di governo e sulle dinamiche future che si intravedono necessarie in una visione di paese che riescano, finalmente, a dare una inversione di tendenza capace di farsi artefice di un armonico processo di sviluppo e di progresso per l’intero territorio.
Oltre a non trascurare uno sguardo alle dinamiche geopolitiche.
E abbiamo concentrato la nostra conversazione in dieci domande.
Senatore Gubert:
1) Con il big bang che si è abbattuto sul nostro sistema politico, giunto in questa ultima crisi di governo ad un allarmante stallo e con esso all’incapacità di creare una maggioranza politica per la formazione di un nuovo esecutivo, risolta solo ad opera del diretto intervento del Quirinale,con la formazione del governo Draghi, si è innescato un forte processo di riconversione organizzativa e strutturale in alcune forze politiche e molta importanza sembra assumere, in prospettiva, la formazione di una nuova classe dirigente fondata sugli assi della competenza, dell’etica pubblica e del senso civico.
Quale soluzione identitaria sta privilegiando il partito in questa fase riorganizzativa e propositiva, rispetto al tradizionale assetto che caratterizzò la vecchia DC, ove le correnti,che erano in primo luogo laboratori di idee e non strumenti di potere, furono l’espressione più alta di pezzi di territorio e di società, e quale indirizzo prioritario sta imprimendo alle nascenti scuole di formazione nei territori?
Di partiti in Italia ce ne sono molti, piccoli, medi e grandi e un movimento che alle ultime elezioni aveva ottenuto la maggioranza relativa si sta trasformando in partito. La loro identità è individuabile solo con riferimento alla collocazione nel continuum destra-sinistra in combinazione con l’identificazione più o meno forte in un leader che ambirebbe ad essere carismatico o, invece, con residui richiami alla democrazia interna. Lungo il continuum destra-sinistra si constata come cambi il rilievo di alcune posizioni. A destra assumono più rilievo concetti come sovranità nazionale, libera iniziativa economica, attenzione ai valori della tradizione, anche quelli relativi alle relazioni uomo-donna, famiglia, religiosità, mentre a sinistra quelli di cosmopolitismo, di gestione di economia e servizi da parte di enti pubblici, di sostegno alle tendenze individualiste e relativiste per quanto concerne i valori tradizionali, in nome della modernità. Lungo il continuum tra leaderismo personalizzato e democrazia partecipativa si è notata una collocazione verso il primo degli estremi (anche nel partito-movimento che ha fatto della democrazia diretta un principio fondamentale), contravvenendo al dettato costituzionale che prevede la strutturazione democratica dei partiti. Lei mi chiede quale soluzione identitaria stia privilegiando il partito, anche rispetto alla “vecchia DC”. In primo luogo l’identità non è definita dal continuum destra-sinistra, bensì dal fare riferimento al pensiero sociale cristiano maturato di fronte alle sfide della modernità. E non solo codificato in documenti di pontefici e vescovi, ma anche dal movimento cattolico nelle sue esperienze storiche. Tale pensiero intende approfondire le questioni di che cosa richieda la ricerca del bene comune per quella parte che dipende dalla politica e dall’azione sociale. Questo il compito fondamentale delle scuole di formazione. Non che manchino scelte conformi all’etica sociale cristiana nei vari partiti esistenti. Ciò che manca è un partito che si ispiri al pensiero sociale cristiano nella sua integralità, evitando di sottolineare una posizione e di trascurarne altre. E ciò porta a una posizione di centro, di centro per l’equilibrio tra istanze diverse, da contemperare.Quanto al secondo continuum la DC non può che voler essere un partito democratico, evitando leaderismi, forme di democrazia plebiscitaria, correntismi per garantirsi posizioni di potere, centralismo democratico. La democraticità partecipativa è principio forte del pensiero sociale cristiano e deve innanzitutto valere per le strutture associative, partiti compresi, che ad esso si ispirano. Finora il processo di ripresa della DC ha seguito questo principio, ma non è sempre facile farlo da parte di tutti.
2)Assistiamo sempre più a sottrazioni di funzioni e responsabilità in capo alle istituzioni rappresentative dei poteri fondamentali dello Stato.
Al punto che si rafforzano tendenze nel istituire task force e tavoli di esperti per la gestione ed il monitoraggio, ora per l’attuazione del Recovery plan, poi chissà per quali altri progetti di ammodernamento, che invece sarebbero di specifica pertinenza del governo e delle sue articolazioni dipartimentali.
Decisioni che svuotano di responsabilità concreta la politica e fanno perdere credibilità ed autorevolezza ai poteri dello Stato.
Ritiene che si debbano arrestare queste prassi che deviano dal dettato costituzionale o ritiene, invece, che debbano essere assecondate per una diversa articolazione delle competenze e delle responsabilità?
Nella mia esperienza prima amministrativa locale e poi politica ho quasi sempre dovuto constatare come i meccanismi democratici di elezione non selezionano le persone più esperte, ma quelle che hanno saputo conquistare la fiducia degli elettori, basata molto sulla capacità di intessere rapporti, di costruire influenza tramite associazioni e capacità comunicativa nei mezzi di comunicazione di massa ed ora anche nei mezzi di comunicazione via internet. Ma la complessità della società contemporanea richiede che le decisioni siano prese conoscendo bene la situazione e sapendo quali siano le “variabili strumentali” da manovrare per modificarla in relazione ai fini desiderati. E la complessità del campo scientifico e tecnico è tale che solo più specialisti insieme possono scegliere, meglio di uno. Giusto, quindi, che scienziati e tecnici, riuniti in comitati, preparino le decisioni. Certamente la decisione spetta agli organi politici e istituzionali e perché questi non siano meri dipendenti delle strutture di esperti occorre che i politici che li compongono ne capiscano e sappiano capire la portata sociale, economica, culturale, politica delle scelte proposte. Un modo per agevolare tale vaglio politico è chiedere alle strutture di esperti di proporre più alternative, con analisi costi-benefici di ciascuna. Necessario sempre è che i responsabili politici e istituzionali definiscano gli obiettivi da raggiungere. La tecnocrazia è un pericolo reale, ma buoni politici sanno evitarlo proprio per il rispetto del principio del primato del bene comune definito in modo democratico.
3) Uno degli effetti deleteri della pandemia è stato l’affievolimento del ruolo del parlamento nel dibattito sulle misure da adottare e sui piani vaccinali.
E molta parte di questo squilibrio tra i poteri, ove sembra aver dominato un facile ricorso a strumenti normativi (Dpcm)agili ma di natura secondaria e quindi non titolati a derogare e incidere sui diritti fondamentali, non pare difficile individuarlo nella competizione disarmonica tra Stato e Regioni per effetto di una distribuzione di competenze e titolarità normative, irrazionali e sproporzionate, soprattutto quando si presentano eventi che mettono a dura prova l’interesse nazionale.
Ritiene ancora spendibile tale assetto organizzativo e di ripartizione dei poteri normativi nel territorio o non appare più aderente alle nuove prospettive di crescita, come l’attuazione del Recovery plan prefigura, accarezzare l’idea di una diversa forma di “decentramento” con l’istituzione di macroregioni,
se non addirittura pensare ad un modello federativo di nuovo conio, con meccanismi di perequazione e di compensazione capaci di ridurre il divario tra i territori?
Uno dei principi di fondo del pensiero sociale cristiano è quello della sussidiarietà, nelle sue dimensioni orizzontale (rapporti tra struttura pubblica e iniziativa sociale) e verticale (rapporti tra diversi livelli territoriali di organizzazione politico-amministrativa). L’Italia è nata centralista 160 anni fa e poi ha maturato maggiore aderenza al principio di sussidiarietà verticale, cedendo competenze a livelli sovrastatali e infrastatali. Sono stati grandi passi avanti, compresa l’ultima riforma costituzionale che il centro-sinistra ha voluto per rafforzare le competenze regionali, molto striminzite nella riforma che nel 1970 ha istituito le regioni ad autonomia ordinaria, con grande apporto della DC e in conformità alla previsione costituzionale. Lei lamenta le difficoltà evidenziate dalla gestione della sanità in materia di pandemia covid 19. Il nodo viene da qualcuno rintracciato nelle cosiddette “competenze concorrenti” di stato e regioni. Si può semplificare la ripartizione delle competenze, riducendo il numero di quelle concorrenti? Probabilmente sì, ma ricordo in Parlamento il dibattito al riguardo. Se per risolvere un problema v’è necessità di un concorso di stato e regioni, proprio anche per le diversità socio-economiche e culturali sul territorio, non vedo perché Stato e regioni non possano collaborare e integrarsi. Se poi sono in gioco valori fondamentali per la popolazione intera già nel testo costituzionale vigente è previsto che lo Stato possa assumere su di sé responsabilità esclusive.Più che sulla struttura istituzionale punterei il dito nei confronti di concreti comportamenti di presidenti di regione per un verso e di ministri per un altro. Fa riflettere che mentre finalmente il Governo fissa principi validi in tutta Italia per il piano vaccinazioni, vi sia un presidente di regione che si dissocia e segue sue vedute. Meglio abolire le regioni e puntare su macroregioni? Le due strutture non sarebbero in contraddizione: diversi gli ambiti territoriali e quindi le competenze meglio esercitate a ciascun livello. Semmai riprenderei un dibattito che negli anni ’70 era vivace, con grande ruolo della DC, sull’ente intermedio tra regione e comuni. Il modo nel quale si è intervenuti sulle Province certamente non è razionale e deve far guida il principio di sussidiarietà.
4)Un altro effetto distorcente della pandemia è stato il ribaltamento delle tradizionali alleanze geopolitiche.
Anche se non sono state ininfluenti le linee di indirizzo impresse da quattro anni di presidenza Trump nel dichiarato disimpegno su alcune tradizionali alleanze.
Fatto è che con il forte indebolimento del fianco Atlantico dell’Europa si è finito per aprire ampi varchi al già insidioso e temibile espansionismo cinese che ha trovato ponti d’oro nel pressappochismo geopolitico del partito di maggioranza relativa.
Ed anche le politiche di attenta cooperazione dell’Italia con i paesi del mediterraneo, a cominciare dalla Libia, il cui territorio appare oramai ripartito sotto la tutela armata di Russia e Turchia, mentre il nostro paese sconta una politica estera superficiale, hanno perso gran parte del potere di mediazione.
Su quali assi portanti si dovrebbero indirizzare le proposte di politica estera in questo nuovo scenario post-pandemico ove grande importanza assume la questione mediterranea legata principalmente alla soluzione del conflitto interno libico?
Sono stato su spinta dell’on, Vittorino Colombo, DC, già Presidente del Senato e del sociologo don Franco Demarchi, promotore e Presidente dell’Associazione Parlamentare “Amici della Cina” (ora Presidente onorario). La Cina con le liberalizzazioni economiche introdotte da Deng Xiaoping è riuscita a portare oltre un miliardo di uomini da una situazione di grande povertà a una situazione di moderato benessere, pur con zone ancora povere nelle aree rurali, specie nell’ovest. Grazie anche ad apertura e grandi investimenti occidentali ha compiuto un miracolo economico. E’ un paese governato da un partito, comunista, che è fortemente cambiato. Si può vedere cosa non va, rispetto ai canoni democratici occidentali, ma è giusto anche vedere ciò che è migliorato, anche in termini di democrazia e di libertà. La sua domanda pone l’accento sull’espansionismo cinese e in effetti da non pochi anni da paese che chiedeva aiuto allo sviluppo la Cina è diventata paese che investe all’estero e con ciò aumenta la sua influenza politica ed economica. La “nuova Via della Seta”, sostenuta agli inizi anche dai parlamentari dell’Associazione che presiedevo, con la comunicazione porta anche l’apertura a processi di aumento di influenza. Il modo per non diventare dipendenti non mi pare però quello della chiusura, ma quello del dialogo, sulla base dei valori che lo stesso governo cinese afferma di sostenere, come il multilateralismo a livello internazionale, la corretta competizione evitando dumping sociale e ambientale, tutela delle minoranze, ecc.. Condivido le valutazioni sul caso della Libia e in generale sulla politica mediterranea. L’aggressione a Gheddafi sostenuta da alcuni paesi nostri alleati e dall’Italia obtorto collo accettata, ha cambiato il quadro, neppure a vantaggio dei paesi aggressori, ma di Russia e Turchia. I nuovi sviluppi politici potrebbero essere un buon inizio di un cambiamento, come la recente visita del Presidente del Consiglio Draghi aiuta a sperare. Più in generale va continuata la valorizzazione della NATO come strumento di difesa e di controllo dei conflitti su mandato ONU, va potenziato il “governo globale” dell’ONU e di altre istituzioni globali, nel rispetto del principio di sussidiarietà, va potenziato l’impegno a favore dei paesi poveri del mondo, aiutandoli in materia di debito, di lotta alla fame e alle malattie, in materia di sviluppo eco-sostenibile attento ai bisogni di sussistenza delle popolazioni locali.
5)Lo stato di tregua tra i partiti della coalizione di maggioranza sta cominciando ad incrinarsi.
Mentre i risultati su un diverso cambio di passo, soprattutto sul versante di una diversa strategia nel programmare le vaccinazioni, stentano a vedersi, anche per un concomitante stop and go delle consegne nelle quantità concordate, Salvini sta battendo in lungo ed in largo il territorio con una propaganda come fosse all’opposizione e non al governo.
Frastornato anche dal fatto che l’unica forza politica che ha la responsabilità dell’opposizione sta trovando un terreno favorevole, in termini di accrescimento dei consensi, in quella larga parte di piccoli imprenditori e autonomi delusi da una politica di sostegni, molto carente e incapace di dare prospettive di certezza su immediate aperture e sopravvivenza di tante aziende in forte difficoltà, dopo oltre un anno di sostanziale fermo.
Tattiche che fanno delle forze di centrodestra il perno del prossimo futuro governo, come prevedibilmente uscirà dalle urne del prossimo anno o al massimo alla scadenza della legislatura, ossia nel 2023.
E che lasciano prevedere un sistema elettorale non proporzionale come sembrava essere l’accordo di massima, in commissione, di qualche tempo fa.
In questo scenario come si collocherà la DC, nell’affrontare questa rinnovata discesa in campo, visto il cartello elettorale che si sta costruendo nel centrosinistra tra un riconvertito movimento 5 stelle e un Pd che continua a navigare nell’ambiguità?
Il problema della collocazione della DC nel nuovo quadro che Lei ha brevemente delineato è di quelli che occuperanno il partito quando sarà chiaro il tipo di legge elettorale che sarà vigente. Nel XIX Congresso Dc di Roma del 2018 la scelta di centro è stata chiara e unanime, come unanime è stato il riferimento al Partito Popolare Europeo, del quale la DC è stata uno dei fondatori. Se quindi il sistema elettorale consentirà coerenza con queste scelte, la strada mi pare chiara. Peraltro il prossimo Congresso, il XX, sarà il luogo per approfondire le questioni, specie nell’ipotesi di una legge elettorale maggioritaria. Il campo politico è ora in grande movimento. I principi da seguire, a mio parere, sono quelli di offrire agli elettori italiani la possibilità di scegliere un partito in un’alleanza che assicuri la maggior condivisione di quelli che vennero definiti “valori non negoziabili”. Se non lo facciamo noi, nessun altro lo fa. Ovviamente nelle valutazioni si dovrà tener conto di orientamenti di principio e programmatici relativi all’insieme del pensiero sociale cristiano.
6) La questione meridionale – già trattata con grande preoccupazione e lucida analisi da Giustino Fortunato agli albori del ‘900 e poi da Pasquale Saraceno che fecero da apripista alle politiche, in questa direzione, che ispirarono la ricostruzione postbellica, mettendone bene in luce la profondità del fenomeno – continua a non trovare lo spazio adeguato nella pianificazione degli interventi infrastrutturali che servono ineludibilmente per rilanciare quei territori ed innescare una crescita economica esponenziale.
Tra di essi potrebbe esserci anche il ponte sullo stretto, che però non pare trovare forti sensibilità nel concerto delle istituzioni.
Ne’ pare ci sia un solido progetto di rilancio del turismo e delle specificità dei territori
A questo punto può davvero darsi credito a quanti vagheggiano, dal Nord-est alla Sicilia, considerato, per quest’ultima,la peculiarità del suo Statuto, persino antecedente alla Costituzione, una più rafforzata autonomia territoriale, molto più vicina al modello dei Lander tedeschi?
Il ponte sullo stretto di Messina deve rientrare in un disegno nazionale ed europeo. La Sicilia ha più da temere dagli svantaggi nei collegamenti con il resto d’Italia e l’Europa che dall’aumento di concorrenza esterna portata da trasporti più facili. La questione degli squilibri territoriali in Italia, specie nel Sud e nelle Isole, data da molto tempo e le ragioni sono complesse. Dubito che trasformata in Stato federato la Sicilia possa risolvere gli squilibri. Da quanto so, l’autonomia speciale della Regione Sicilia è già la più ampia d’Italia e non credo che i Lander austriaci o tedeschi abbiano molto di più, e l’autonomia dell’Alto Adige e del Trentino è maggiore di quella di un Land austriaco, come il confinante Tirolo.
Semmai l’impegno lo vedrei nel dare più piena attuazione allo Statuto di autonomia (che se non erro ha competenze anche in politica estera, al pari e più della Baviera). Diverso il caso del Veneto, che è regione ad autonomia ordinaria, mentre regioni confinanti come il Trentino-Alto Adige, e il Friuli Venezia Giulia hanno autonomia speciale. L’autonomia politico-amministrativa deve accompagnarsi a quella economica, mentre comune a livello nazionale ed europeo devono essere le misure finanziarie di solidarietà nazionale ed europea, che richiedono parallela capacità di buon impiego. In definitiva, vedrei bene una generalizzazione delle autonomie speciali in tutta Italia, integrate da collaborazioni macroregionali, accompagnate da politiche di riequilibrio territoriale nazionale ed europeo. Sono possibilità, peraltro, già previste dall’attuale Costituzione, con procedure già avviate per alcune regioni come il Veneto.
7) L’Unione europea sta attraversando un momento di particolare scadimento della propria credibilità internazionale, sulla scia di una dilettantistica e ingenua gestione degli approvvigionamenti vaccinali.
Con poca lungimiranza ha stipulato contratti di fornitura con i colossi farmaceutici lasciandosi scrivere supinamente clausole e tempi senza quelle penali che avrebbero garantito almeno le consegne concordate.
E l’ultimo sgarbo che il presidente turco Erdogan ha consumato davanti alle telecamere di tutto il mondo,lasciando nel corso della visita di Stato la presidente Von der Leyen, in piedi, va nel chiaro e, al contempo, ambiguo segno di non riconoscerle titolarità a rappresentare l’importante organo dell’Unione o forse perché donna.
Sta di fatto che anche questo cruciale organismo ha bisogno di una ampia manutenzione.
Quali cambiamenti a suo giudizio appaiono essenziali?
Non ho sufficienti elementi di giudizio sulle procedure seguite per la fornitura europea dei vaccini anti covid19. Mi pare che giudicare col senno di poi è un po’ troppo facile. Per di più è stata una scelta che ha evitato una distruttiva concorrenza tra gli stati europei in una materia che non era dell’Unione Europea. Netto, invece, il giudizio negativo sui comportamenti di Erdogan e mi pare che il giudizio espresso da Draghi, forse un po’ maleducato, abbia colto le cose come sono. Anni fa ho organizzato un convegno, con la Regione Trentino – Alto Adige, sull’appartenenza o meno della Turchia all’Europa e le conclusioni, anche su base di ampi dati di ricerca, è che è grande lo scarto di valori in tema di libertà e democrazia fra paesi della UE e Turchia.
Quali cambiamenti sono desiderabili per l’Europa?. Ancora una volta è il principio di sussidiarietà che fa da guida. Che cosa i singoli stati nazionali non sono in grado di fare bene da soli e quindi sarebbe meglio svolto a livello dell’Unione? Molti e i principali dei quali gli stati nazionali non vogliono cedere all’Unione. Ne cito alcuni: politica estera, difesa, regole di mercato, moneta, tutela ambientale, ricerca scientifica e tecnologica, identità culturale europea. In cambio ne svolge altri erodendo competenze che potrebbero essere svolte meglio a livello territoriale inferiore, statale o regionale o locale. E’ ad es. il caso, spesso citato, su alcune norme riguardante prodotti. Da rivedere ancora l’eccessiva enfasi data al principio della libera concorrenza a scapito di altri come il riequilibrio territoriale o il rispetto delle autonomie locali, regionali e statali.
Dal punto di vista istituzionale, va completato il timido avvio di una struttura politica federale o confederale, nella quale l’attuale prevalenza del Consiglio Europeo con decisioni da prendere all’unanimità sia ridimensionata a favore del Parlamento Europeo e di un potere normativo ed esecutivo congiunto Stati-Commissione Europea che possa deliberare a maggioranza per alcune ulteriori competenze. Da affrontare poi la definizione dei valori di riferimento di un’Unione Europea che non si limiti alla dimensione economica e ponga limiti alla deriva relativista e individualista che caratterizza alcune istituzioni europee, come in taluni campi la Corte Europea di Strasburgo o la stessa Commisione (vedasi il caso delle minacce di sanzioni all’Ungheria e alla Polonia per le loro scelte politiche a favore della famiglia e del rispetto della vita umana dal concepimento alla morte naturale).
8) La Chiesa si è posta con forza nel propiziare un generale cambiamento eco- sostenibile, dando una forte spinta con la coraggiosa proposta di un Umanesimo integrale con le sue ultime Encicliche, creando, in taluni settori del clero più tradizionalista, un certo malcontento.
Quali prospettive può aprire questa particolare sensibilità di Papa Francesco nei rapporti tra i popoli e nella ridefinizione di nuovi modelli sociali?
Non mi pare che il clero che Lei chiama “più tradizionalista” abbia problemi con l’eco-sostenibilità delle politiche e delle pratiche economiche e sociali. Semmai i problemi riguardano altre prese di posizione del Papa Bergoglio, neppure contenute nelle sue encicliche. Ricordo per es. le affermazioni sugli omosessuali, le aperture sull’ammissibilità al sacramento dell’eucarestia di divorziati, l’abbandono di ogni insegnamento in materia di rapporti sessuali prematrimoniali, la valorizzazione dei risvolti riformatori di Lutero. Non sono i valori della tradizione a causare politiche non eco-sostenibili, ma semmai quelli della modernità. Certamente le encicliche di Papa Francesco arricchiscono il patrimonio del pensiero sociale cristiano e sono punti di riferimento della DC. In particolare è interessante il filone di pensiero relativo a quella che è chiamata “economia di Francesco”, che fa da riferimento anche al Manifesto Zamagni, per il quale la DC ha espresso condivisione. L’eco-sostenibilità è un obiettivo ormai largamente acquisito. Non così una visione umanista dell’economia, che prevede limiti ai criteri del profitto e del libero mercato. Posizione tradizionale ma dimenticata del pensiero sociale cristiano. Questa visione mi pare centrale per un partito di ispirazione cristiana che opera in un sistema globale capitalista.
9) Mentre ancora non si riesce a mettere a punto un efficace piano vaccinale c’è chi già mette le mani avanti sull’immanenza di questa pandemia nel senso di una inevitabile cambiamento di vita e delle relazioni sociali
In questo scenario sembrerebbe predominare per il prossimo futuro diffidenza e rassegnazione a nuovi riconfinamenti relazionali.
Ciò finirebbe per intaccare, tra i tanti esiziali effetti, tutte le conquiste in tema di partecipazione ai processi decisionali, soprattutto nei paesi a vocazione democratica, lasciando gradualmente questo compito ad una ristretta élite.
Quali interventi ritiene debbano prioritariamente adottarsi per scongiurare una tale involuzione del nostro sistema politico?
Sono trascorsi molti decenni da quando Orwell profetizzava un mondo governato da ristrette élite, dal “grande fratello”. Si trascura la forza della natura umana, la forza della persona umana. Si può essere manovrati, ma non mi pare probabile che lo si possa fare indefinitamente, chiudendo la storia, e per miliardi di persone. Nella natura umana ci sono impronte, basti citare l’inquietudine richiamata da Agostino, che fanno riemergere esigenze di senso, di comunione, di libertà, di nuove esperienze che non si acquietano con l’enfasi sulle pulsioni al dominio (attivo e passivo) o alla sicurezza che deriva dal ripetere modelli conosciuti. Sociologi come Thomas e Znaniecki lo hanno teorizzato già negli anni Venti del secolo scorso per interpretare i processi che attraversavano gli immigrati polacchi in America. L’uomo è essere sociale. Certo serve vigilare per evitare tentativi di dominio, di cui talora si ha notizia in mezzi di comunicazione, ma dominare a lungo con la forza dei alcuni mezzi di comunicazione e su miliardi di persone non è facile, come non è facile che le spinte relazionali umane siano a lungo mortificate da timori generalizzati.
10) Una diffusa e allarmante preoccupazione per “..la tenuta sociale” dell’Italia” giunta talora a ”..vere e proprie faglie sociali ”, acuite ulteriormente dalla “..scure di una crescente povertà educativa”
a causa del forte divario della digitalizzazione territoriale, è stata espressa dal Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana nel comunicato finale dei lavori che si sono svolti nel marzo scorso.
Quali misure ritiene debbano mettersi in campo per affrontare seriamente questa paurosa deriva sociale il cui prezzo sarà pagato soprattutto dai giovani e dalle future generazioni?
Uno dei vicesegretari della DC, Ettore Bonalberti, sociologo, ha proposto un’analisi della composizione di classe della società italiana che mi pare utile a cogliere le “faglie” sociali cui ha richiamato recentemente il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana. A mio avviso la maggiore è tra coloro che hanno il loro reddito garantito (almeno in buona misura) anche in caso di blocco delle attività economiche e coloro che invece o sono senza reddito per blocco delle attività o ottengono per tale blocco indennizzi pubblici modesti. Il Governo Draghi si avvicina a quanto hanno fatto altri grandi stati europei, come la Germania, aumentando gli indennizzi e nel contempo fluidificando per il futuro le garanzie del posto di lavoro, coinvolgendo sindacati e associazioni imprenditoriali. Poi c’è anche il divario della digitalizzazione, che non mi pare corra solo fra territori, ma anche e soprattutto tra generazioni. Per le persone anziane, e non sono poche, il dover usare di mezzi di comunicazione elettronica anche per l’esercizio di loro diritti è non solo motivo di frustrazione, ma anche di esclusione e di dipendenza da altri. A mio avviso va garantita la possibilità di usare nei confronti delle amministrazioni, specie pubbliche, un doppio canale comunicativo, quello digitale via internet e quello tradizionale cui una grande quota di popolazione è stata educata.
E c’è anche la “crescente povertà educativa” di chi, giovane, non può avvalersi delle medesime opportunità educative di chi abita in territori meglio “digitalizzati”. I programmi di digitalizzazione da inserire nel “Recovery Plan” finanziato da fondi europei sono certamente l’occasione per ridurre gli squilibri territoriali delle infrastrutture informatiche. Sinceramente non farei un dramma se dei giovani perdono un anno di scuola causa covid 19. Da giovane non erano pochi coloro che perdevano un anno, o per bocciatura o per difficoltà di poter accedere agli studi medi o medi-superiori per carenza di risorse economiche della famiglia (per non parlare dell’università), eppure non sono successe catastrofi. Per la povertà della mia famiglia io ho perso due anni di scuola dopo le medie, e facevo il garzone. Le politiche del diritto allo studio promosse dai Governi a guida DC (ricordo personalmente le borse di studio per le superiori volute dal Governo Fanfani nel 1962 e poi il pre-salario) hanno consentito il superamento di svantaggi che mi paiono maggiori di quelli di oggi. Ciò non toglie che non sia importante migliorare le condizioni, ma senza drammatizzare. Le generazioni passate hanno superato difficoltà ben maggiori! E senza lamentarsi tanto, ma con ottimismo sul loro futuro.
Ringrazio il Sen. R. Gubert per la lucida e preziosa panoramica che ci ha offerto con le sue risposte.
16.04.2021
Luigi Rapisarda