Si tratta di un importante principio riferito alla cosiddetta frode carosello.
L’ufficio infatti contestava, ad una società italiana, l’utilizzo di fatture, per operazioni soggettivamente inesistenti,da parte di una società
“cartiera”.
Il ricorso della contribuente veniva rigettato da entrambe le Commissioni tributarie di merito.
Nel successivo ricorso, davanti alla Cassazione, si lamentava, tra l’altro, il vizio di motivazione apparente in quanto erano stati ritenuti legittimi gli avvisi di accertamento senza indicare,nella sentenza, le prove fornite dall’Ufficio, a fondamento della pretesa, e le ragioni per cui,quanto eccepito dalla società, non fosse risultato idoneo a provare il contrario.
Il ricorso veniva accolto dalla Suprema Corte, che affermava come la Ctr aveva posto il suo convincimento sulla base di un vecchio orientamento giurisprudenziale, ormai superato perché non ancorato all’attuale principio della ” buona fede” del cessionario.
Invero si tratta ormai di diritto vivente che ” quando il Fisco intende dimostrare, in seguito all’accertamento di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, deve provare come il destinatario di tale fattura sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che l’operazione indicata faceva parte di un’evasione dell’Iva. Questo perché non può esigere, dal suddetto destinatario verifiche che non gli incombono” ( confr C-329/18 Corte di giustizia Ue).
Avv. Salvatore Torchia
Scarica l’Ordinanza in pdf:Cass. Civ. Ordinanza n. 26477 del 2022