I ricordi si sedimentano nella coscienza lasciando la traccia indelebile del passaggio di persone che hanno avuto un ruolo determinante nella vita di ognuno di noi e nella vita dello scrivente questo ruolo lo hanno avuto il Sen. Cristoforo Filetti, il dott. Cons. Sturiale Pietro e l’avv. Salvatore Pistorio, ai quali va sempre la mia riconoscenza.
L’avv. Pistorio, familiarmente zio Totò, nel marzo del 1986 mi accettò nel suo studio. Per lui è stata, forse, una scelta obbligata, poiché in quel momento in studio mancava un avvocato che potesse patrocinare in Tribunale (Giovanni era laureato da poco e Saro Grasso aveva lasciato lo studio), ma per il sottoscritto è stata la svolta, la pietra d’angolo sulla quale è stata edificata non solo tutta l’attività professionale, ma anche la coscienza umana e giuridica. Erano anni incerti, bui, dove si usciva dall’angoscia delle stragi terroristiche e si entrava nel terrore mafioso. Lo zio Totò era un uomo vecchio stampo, autorevole, severo e generoso, a volte imperscrutabile, altre volte ingenuo. Aveva mantenuto l’immagine dell’Ufficiale Borbonico, con il suo aspetto esile e con quei baffetti che erano una parte del viso. Aveva un carisma particolare, che soggiogava chi si trovava al suo cospetto. Aveva la capacità di comprendere immediatamente un problema grazie allo spiccato intuito e con la stessa capacità riusciva a trovare una soluzione. Il diritto è buon senso, diceva, nasce dalla condotta umana che ritiene giusto quel comportamento. Sul lavoro non aveva l’abitudine di scherzare tenendo cura, come fine eziologico della professione, il riconoscimento del diritto del cliente. Ha avuto sempre grande rispetto per il ruolo dell’avvocato: in esso vedeva non solo se stesso, ma riconosceva anche il giudice e l’utente della giustizia. Se il collega avversario era di poca esperienza, cercava sempre di metterlo a suo agio, senza mai approfittare di tale inesperienza per conseguire una qualche utilità processuale. Il fine non era quello di ottenere una sentenza favorevole, come vessillo della propria abilità, ma ben altro.
L’avv. Pistorio era rispettato da tutti, era amato dai colleghi, dai magistrati, dalla gente; era considerato un uomo giusto e per questo non contava nemici. Quando entrava in udienza non passava inosservato. Era il decano degli avvocati e tutti ne riconoscevano l’autorità. Infatti, da quando il Sen. Filetti fu eletto in Senato nel 1968 e con il passaggio degli avvocati anziani (Cirelli e dopo Marino), l’avvocatura acese convergeva nella sua persona. Solo nei confronti del sen. Filetti nutriva riverenza, forse in considerazione del fatto che nel primo dopoguerra lo ebbe come maestro per circa sette anni. Mi raccontava (come fanno i vecchi) che quelli erano anni duri, dove si lavorava ogni giorno, compreso il sabato e la domenica fino alle dodici, e si lamentava del cambiamento delle abitudini poiché negli anni ’80 il sabato sera non si dedicava al lavoro.
Ricordo che era solito chiamare l’avversario processuale “Culliuzza” e, con fare ammiccante, gli proponeva la soluzione della controversia; quel suo modo signorile e garbato esercitava un fascino particolare, tanto da condurre l’avversario nelle acque placide dove aveva già ormeggiato i termini dell’accordo.
Il Foro acese lo riconosceva come suo punto di riferimento. I suoi fedelissimi (Agatino Patti, Nino Di Bartolo, Orazio Esterini, Pippo D’Anna, Pippo Longo e i più giovani Giovanni Giordano, Salvo Zagame, Saro Grasso, Enzo Mellia) alimentavano la coscienza del ruolo da protagonista che esercitava all’interno dell’avvocatura. In questa ha influito la posizione che ricopriva all’interno del consiglio dell’ordine degli Avvocati, nel quale rappresentava tutte le problematiche degli uffici giudiziari della provincia ed in particolare delle Preture di Acireale, Giarre, Linguaglossa e in parte anche Trecastagni e ai bisogni degli avvocati. L’avv. Florio aveva lasciato un vuoto all’interno del Consiglio e il suo posto fu assegnato all’avv. Vincenzo Geraci, che era colui che ad ogni tornata elettorale doveva garantire l’elezione di zio Totò: infatti, dopo il primo turno, che vedeva sempre eletti i due Geraci e il mitico avv. Vecchio (eterno segretario), vi era la lotta “fratricida” tra Pistorio, Papalia, Dato e Antonino Magnano di san Lio, per i quali un voto di differenza era determinante. Accadeva, infatti, che da novembre, zio Totò cominciava a telefonare a tutti chiedendo il voto e nei giorni delle votazioni (di solito dopo il dieci gennaio), io e il povero Giovanni eravamo obbligati a organizzare viaggi e percorsi dei colleghi acesi e del mandamento di Giarre per garantire che ogni avvocato “amico” avesse espresso la sua preferenza.
Ogni anno nel periodo estivo partiva in vacanza; la sua era una vacanza particolare, nella quale il treno era di colore bianco e i passeggeri avevano il compito di accompagnare i malati nel viaggio a Lourdes (era un barelliere). Era strano pensare che quest’uomo così austero e autorevole, mostrasse un tale senso di profonda umanità.
Da subito c’è stata una forte intesa che mi ha portato a stargli vicino fino a quando le sue condizioni di salute diventarono preoccupanti. In tanti anni di vita in comune molti episodi sono sempre vivi nella mia mente. I tre colpi di campanello ogni sera alle 19,55 del Cav. Patanè (fraterno amico); le imprecazioni del valoroso segretario prof.Pippo Vadalà; le battute di Giovanni; i pranzi al ristorante Lachea al ritorno da Catania.
Totò Pistorio prima di essere un avvocato, era un uomo che con carattere e dignità ha sempre onorato la Toga che indossava, senza mai venire a compromessi con i suoi principi; aveva il dono della fermezza e la capacità di giudicare con severità e obiettività. Mostrava lucidità in ogni circostanza; ricordo quando recandosi in camera da letto si trovò al cospetto di due malfattori che rovistavano all’interno degli armadi. Immediatamente, senza perdersi d’animo, disse alla moglie che si trovava in cucina, nella stanza accanto, “Pippa prendi la pistola che li ammazzo!” Certamente la figura esile e anziana non poteva fare paura ai giovani furfanti, ma il suo agire ha creato scompiglio ai delinquenti, imponendo la fuga.
La stessa lucidità ha mantenuto nel corso della malattia: era affetto da enfisema polmonare che gli impediva di respirare. Anche in questo caso, io e Giovanni pensavamo al ritiro delle bombole di ossigeno e il compianto Carlo Testa praticava salassi per fluidificare il sangue e ridurne l’apporto alle arterie.
L’avv. Pistorio, o meglio, zio Totò si reputava un artigiano del diritto e forse sarà per questo che le spoglie mortali giacciono nella cappella degli artigiani acesi, nella quale ogni tanto lo vado a trovare.
Nunzio Manciagli