L’idea è davvero, molto allettante in una occasione che appare unica: trasformare la crisi in opportunità e passare alla storia come il presidente della ricostruzione del Paese post-covid.
Con un posto d’onore accanto al grande statista Alcide De Gasperi.
Pare che non pensi ad altro il nostro premier, che immagina un nuovo “Piano Marshall” per il quale si è speso con grande determinazione e capacità diplomatica nel Consiglio europeo.
Tuttavia a ben guardare, nell’immediato orizzonte economico, nel nostro paese non sembrano emergere che timidi bagliori di ripresa, mentre le previsioni sul calo del Pil sono tutt’altro che rosee( circa il 12% nel ciclo annuale).
Malgrado ciò il Ministro dell’Economia Gualtieri, ha osato parlare di forte rimbalzo del Pil che fa ben sperare, ma a detta di tanti osservatori tale rialzo è in buona parte riconducibile soprattutto al settore agro-alimentare, che non si è mai fermato.
Nella gran parte dei settori produttivi, invece, dal manifatturiero alle ristorazioni e turismo, c’è ancora incertezza, sfiducia e paura del futuro, soprattutto pensando che da qui a qualche mese, quando finiranno i sostegni messi in campo dal governo,tra licenziamenti e fallimenti, ci si troverà a fronteggiare un autunno a tinte fosche, con tensioni sociali e falcidie di imprese.
Con il concreto rischio di una crisi di governo perché a quel punto sarà più facile ai partiti della coalizione di maggioranza, ma soprattutto al PD che da tempo mostra insofferenza verso la linea personalistica del premier, disarcionare Conte ed il suo ambizioso ed astuto progetto di proseguire nella sua leadership facendo leva sui frequenti contrasti PD e 5S, che hanno significato linfa vitale per la sua permanenza a palazzo Chigi.
In fondo egli sembra quasi emulare, ma in modo più leggero e gentile, le gesta occulte del Conte Dracula – tale Vlad III – secondo le antologie romanzate del regno di Valacchia(Romania) – per assicurarsi linfa ed energia vitale e forza nell’azione del suo governo e senza bisogno di mantello e canini.
Gli basta, di volta in volta, al calar delle tenebre, con abile seduzione politica, rovistare tra agende, appunti e pensieri nascosti dei suoi alleati, carpendone idee e progetti, ora dall’uno ora dall’altro, lasciandoli senza memoria e senza argomenti e senza linfa politica.
Poi con abilità impareggiabile, personalizza, fregiandosene a destra ed a manca in un esuberante presenzialismo mediatico( proverbiale la sua buona notte che, durante la fase del lockdown, chiudeva discorsi forbiti ed amorevoli, costringendo i tanti “internati per decreto” a rispolverare vecchi dizionari, sinonimi e contrari, tanto risultava popolare ed accessibile il suo lessico, che quasi tutte le sere ci rivolgeva dagli schermi della TV di Stato o via social) che gli ha regalato indici di gradimento tali da sopravanzare tutti gli altri leader.
Ne aveva fatto le spese anche Matteo Salvini, che senza al momento capire il perché, si indusse,con gesto impulsivo ed irrefrenabile, a rompere l’alleanza di governo.
Solo in questi giorni,
pare, abbia compreso del perché si sentisse svuotato nella sua forza vitale e nei suoi bellicosi propositi e depauperato nelle idee, spesso prive di costrutti convincenti, individuandone la causa nelle furtive manipolazioni dell’avvocato del popolo, costretto a metterle in campo tutte le volte in cui si trovava a corto di idee e propositi.
In fondo, da buon apprendista politico,un modo efficace di come apprendere di notte quello che doveva fare di giorno.
Tanta trasfigurazione metaforica, che pur non ne riproduce la classica metodica dei vampiri, ci evoca la magnifica opera letteraria dello scrittore irlandese Bram Stoker, Dracula, pubblicata nel 1897, con cui egli seppe adombrare in tutta la sua angosciosa e romantica tessitura nell’Inghilterra vittoriana, una virtuosa trama della leggenda dei vampiri, già oggetto di narrazione nella letteratura egizia e greca.
Insomma raffinatezze ed intrighi del potere, ma pur sempre gioco periglioso perché il conto finale lo paga sempre il Paese.
Che già è ampiamente prostrato da questa tragedia planetaria che ci sta proiettando in una dimensione epocale, con innumerevoli stravolgimenti ai normali rapporti sociali, familiari, nel lavoro e nel mondo della scuola e della formazione superiore, che si stanno imponendo.
Cosi da non ritenere un azzardo affermare che ci si sta incamminando verso un nuovo assetto organizzativo e ordinamentale delle nostre società, qualcuno dice “ un nuovo ordine mondiale”.
Come se per una strana coincidenza della Storia stiamo sperimentando una potente e diffusa aggressione al genere umano, al pari delle più virulente pestilenze che può essere il preludio ad una potente aggressione politica di cui ne pagheranno le conseguenze soprattutto i diversi modelli di democrazia, più esposti perché più vulnerabili.
E mentre la grande sfuriata estiva volge quasi al suo naturale epilogo ci ritroviamo già a dover fare i conti con una messe di contagi che ci lasciano prevedere quanto sarà duro in quest’autunno il contrasto al corona virus, per nulla silente ed ammansito,come si pensava dovesse avvenire con le torride temperature estive.
Anzi, il virus, che nei mesi primaverili era stato tenuto a bada con misure draconiane al punto da fare carta straccia dei diritti e delle più elementari libertà, gelosamente custodite dalla nostra Carta costituzionale, ove mai i nostri costituenti furono sfiorati dall’idea abnorme che si potesse dichiarare uno stato di emergenza nazionale comprimendo tutte le libertà della persona e di un’intera comunità, si è preso la rivincita grazie alla sfrenatezza ed alla disinvoltura con cui ci si è lasciati andare nell’azzardo delle discoteche e dei locali di ritrovo e di divertimento, ove le mascherine sono state lasciate alla porta.
In questo quadro, i cui orizzonti non ci paiono cosa che riguardano solamente il nostro paese, ridefinire gli assetti in una nazione democratica vuol dire passare da una fase di ricostruzione, ove tutto necessita di un’attenta rimodulazione e del bilanciamento dei nuovi equilibri istituzionali economici e sociali,capaci di assicurare sviluppo e progresso senza intaccare le conquiste sociali e civili della propria storia.
È legittimo allora interrogarsi sul chi e come si debba governare questo delicato passaggio epocale.
E, al contempo, legittimo anche chiedersi se un governo condizionato da un’alleanza ibrida e scarsamente conciliabile, in tanti aspetti delle nuove sfide che ci attendono, sia davvero lo strumento migliore per assicurarci che gli adempimenti del comune calendario di obiettivi che gli accordi sottesi agli aiuti ed ai prestiti che l’Ue ci ha accreditati, potranno essere ben onorati.
La nostra Carta costituzionale, ovviamente, non prevede alcun particolare tipo di scioglimento delle Camere per snodi epocali o costituenti, ossia per quei rari passaggi della Storia in cui le scelte politiche siano particolarmente incidenti e cruciali, anche se questo è un tema assai delicato ed affidato alla sensibilità politica delle forze politiche ed, in primis, al Capo dello Stato.
Tanto è vero che sebbene non esplicitamente indicato nel testo della nostra Costituzione, il principio della rappresentanza vuole che si mantenga un’adeguata concordanza tra Paese legale e paese reale.
Così non sono stati improvvidi i pochi casi di scioglimento delle Camere nel corso della legislatura quando appariva evidente un forte scollamento tra rappresentanti e rappresentati.
Mentre la capacità costituente di una legislatura dipende dalle scelte parlamentari, attraverso la formazione di Commissioni bicamerali, come non poche volte si è tentato nel corso delle diverse legislature.
In questo quadro non va ignorata l’imminente tornata elettorale che ha una duplice scelta: da una parte il rinnovo dei Consigli regionali di ben 6 Regioni e dall’altra il Referendum sul taglio dei parlamentari.
Scenario che potrebbe fa tremare la poltrona del premier se si verificasse un ribaltone soprattutto nelle Regioni che da sempre sono state appannaggio della sinistra, Toscana e Marche e se ad esse si aggiungessero la Puglia e la Campania.
Un risultato che determinerebbe, senza ombra di dubbio, una chiara maggioranza dell’elettorato di destra nel Paese con l’effetto di una non più attuale rappresentatività delle forze politiche in Parlamento.
Ovviamente tutto è rimesso alla sensibilità politica delle forze di maggioranza e del premier, che prendendo atto della diversa direzione espressa dal voto popolare, seppur in alcuni territori, dovrebbero aprire una crisi per consentire al Primo Ministro, che potrebbe farlo anche autonomamente, di rassegnare il mandato e lasciare che il Capo dello Stato decida sul da farsi: ossia affidare nuovo mandato per la formazione di un nuovo governo o sciogliere la legislatura.
Più agevole appare lo scenario con riferimento alla decisione del corpo elettorale sul referendum.
In questo caso poiché sono tutti gli elettori del paese chiamati alle urne, una vittoria del No, trattandosi di una pronuncia su materia costituzionale, farebbe emergere subito un netto contrasto con la decisione del nostro parlamento, in qualche modo delegittimandolo.
Qui la via da percorrere sarebbe assai più semplice nei suoi sbocchi.
Una vittoria del No, imporrebbe eticamente al Governo dimissioni immediate e al Capo dello Stato lo scioglimento delle Camere perché non più rappresentative della maggioranza del Paese.
Tuttavia lo scioglimento trova un limite se le forze politiche, trovando una nuova convergenza, propongono al Capo dello Stato, una coalizione alternativa.
In questo caso il Presidente della Repubblica, e qui siamo nell’ambito della costituzione materiale, non può ignorare la nuova maggioranza politica, soprattutto se quelle forze politiche non siano espressione dello schieramento che è uscito perdente dalla pronuncia referendaria, stante la particolare connotazione del nostro sistema basato sulla centralità del Parlamento.
In realtà i partiti si stanno da tempo posizionando in vista di questi nuovi eventuali scenari.
Molto sospetto ha destato l’elogio( quando si dice che gli esami non finiscono mai, per nessuno! Ma ancora più singolare il fatto che non sai mai chi possa essere il tuo prossimo esaminatore!)che Di Maio sembra aver rivolto al termine di un suo incontro con l’ex presidente della Bce, Mario Draghi.
Una riabilitazione?(Si fa per dire! Un capovolgimento rispetto alle loro ingarbugliate dottrine anti sistema e anti tecnocrazie).
Beh! Secondo alcuni osservatori, un preciso posizionamento dei 5S per un eventuale Governo di Unità nazionale a guida Draghi per affrontare, a largo raggio, e attuare un progetto di ricostruzione del paese.
Un idea che, se si avverasse, evidenzierebbe tutta la capacità trasformista di questo movimento, che in un paio d’anni di effettivo potere, ha trasformato il suo dna, creando una evidente spaccatura al suo interno tra i rappresentanti investiti di funzioni pubbliche che si stanno allineando ai “ migliori metodi della prima repubblica” ed i militanti che fanno fatica a seguirli nelle innumerevoli giravolte della loro originaria linea politica.
In questo senso, eloquente il dissenso avanzato apertamente da un nutrito gruppo di deputati del movimento che in questi giorni hanno, in contrasto con la linea del governo, che ha posto il voto di fiducia sul decreto per l’emergenza covid di agosto, presentato un emendamento per la soppressione del rinnovo, per altri 4 anni, dei vertici dei servizi di intelligence.
Facendo emergere apertamente una chiara frattura interna che finirà per far implodere il movimento prima di quanto si possa immaginare.
Insomma sarebbe un passaporto per continuare a governare, nonostante il Paese li stia lasciando per strada per il loro palese e disinvolto trasformismo e l’irrefrenabile vocazione anti industriale e reazionaria.
Ma ancor più grave sarebbe se i due leader sovranisti si facessero scudieri di tale cinica strategia, con tutte le implicazioni negative che una tale ammucchiati di governo comporterebbe in termini di contemperamento di valori ed obiettivi, talora del tutto inconciliabili.
Quello che è stupefacente ci pare il fatto che in uno scenario così fervente il centrodestra non sia riuscito a trovare un indirizzo unitario sul referendum costituzionale.
Così andando in ordine sparso con Berlusconi che, cogliendone la giusta valenza e l’insidia per i nostri equilibri costituzionali, soprattutto in termini di rappresentanza, che sembra, saggiamente, orientato per il No e Salvini e Meloni che persistono nel loro pressapochismo politico sostenendo la causa del Si, dimostrando inconfutabilmente una sorta di affinità con le politiche demagogiche e restrittive degli spazi di democrazia e della rappresentatività effettiva, di cui sanno essere alfieri i grillini, con la conseguenza di dare maggior potere alle oligarchie di partito( Casaleggio e company, piattaforma Rousseau)
Quando invece potrebbe essere la giusta leva per mandare definitivamente a casa questo governo e le ambizioni dei 5S di voler proseguire la legislatura fino alla sua fine naturale.
Mi auguro si ponga più attenzione al fatto che un referendum costituzionale non è un semplice coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni dei nostri rappresentanti istituzionali.
È un atto di risorgenza della sovranità popolare, in costanza di legislatura, che a seconda dell’esito non può non avere conseguenze sul suo legittimo proseguimento.
E i partiti ovviamente non possono ignorare tale valenza, tanto è vero che ciascuno non fa mancare le proprie indicazioni di voto.
La cui efficacia per quanto ridotta crea un effetto di persuasione, soprattutto in presenza di una forte fidelizzazione dell’elettorato, cosa che paradossalmente si verifica se l’elettorato non percepisce a fondo il valore e le implicazione della scelta che è chiamato a fare.
Perché quando se n’è reso conto, ha sempre votato disattendendo le indicazioni dei partiti: dal referendum sul divorzio, all’ultimo sulla famigerata riforma del governo Renzi, che modificava in modo contorto il bicameralismo perfetto, e che in conseguenza della sonora sconfitta, stante la sua eccessiva esposizione sul buon risultato, dovette dare le dimissioni dall’incarico.
E poi non può trascurarsi il fatto della chiara ed aperta ostilità contro la ponderata e razionale scelta dei nostri costituenti, e degli ulteriori aggiustamenti nel corso delle prime legislature,con cui se ne definì il numero fisso, per assicurare un ampio e giusto equilibrio della rappresentatività del paese.
Obiettivo di cui il movimento 5S ne ha fatto da subito una bandiera, presentandolo come uno dei punti cruciali del loro programma politico.
Un risultato che i grillini hanno potuto portare fino in fondo trascinando in questa furia giacobina, prima la Lega e poi il Pd, che ha spudoratamente mutato linea, barattando la diversa posizione politica sul tema in cambio di aperture sulla riforma della legge elettorale,sebbene assai effimere, perché è di questi giorni l’ultimatum lanciato da Zingaretti ai capi politici del movimento perché sia rimessa in calendario la bozza di legge elettorale,denominata ”germanicum”,sulla falsariga della normativa tedesca,soprattutto con riferimento alla soglia di sbarramento, che al momento è attestata al 5%.
Ci si aspettava pertanto una diversa presa di posizione sulle indicazioni di voto da dare agli elettori da parte di Salvini e Meloni( Berlusconi, cui facciamo i migliori auguri di pronta guarigione,ha da subito esplicitato tutte le sue perplessità)in conformità ad una visione di democrazia e di Paese diversa ed antitetica alla linea grillina.
Sta di fatto che questa insensata posizione ancillare dei due leader sovranisti, rende ancora meno convincente il loro progetto di Paese, (che già si connota in una visione troppo autarchica, a dispetto delle interdipendenze oggi sempre più inestricabili, che non bisogna demonizzare ma prodigarsi per assicurare una migliore governance, soprattutto dei contesti comunitari, come nel caso della Ue, rivedendo i trattati,nel segno di una maggiore solidarietà internazionale) favorendo, non certo ingenuamente, lo smantellamento del sistema della democrazia rappresentanza nel territorio, capace di aggravare fortemente il già pesante divario tra le aree regionali, con forti insidie e danni per il giusto equilibrio tra i poteri e l’efficacia dei contrappesi.
Ribilanciamenti che, ove mai, dovevano essere elaborati, discussi e decisi in uno con l’eventuale riduzione dei membri, in linea con una legge elettorale compatibile.
Mentre poco importa che essi ne fossero stati convinti o distratti sostenitori di tanta grave mutilazione costituzionale consumata con il voto parlamentare.
Un diverso segnale emerge invece dal crescente dissenso che monta all’interno del Pd, ove cominciano ad emergere le prime contraddizioni interne.
Così sembra scricchiolare la piena e strumentale adesione alla causa del Si del Pd, ossia ad una riforma che ha come unico padre l’ideologia giacobina dei grillini, inquietando tanti esponenti di questa forza politica che non intendono consegnarsi mani e piedi legati alla causa movimentista.
Una riforma che, allo stato delle cose, non giustificabile,meno che mai per la risibile ragione del risparmio annuo sulle indennità, che in confronto ai tanti inutili sprechi, tra auto blu, consulenze talora inutili e incompleta digitalizzazione della PA ed altro,non sono altro che briciole.
Ma lo spirito del progetto mostra tutta l’avversione verso la democrazia parlamentare con il precipuo scopo di allontanare ancor più i cittadini dalla politica e trasformare il sistema della rappresentanza in una lotteria via web attraverso le piattaforme digitali, facilmente manipolabili.
Alle tante considerazioni di illustri costituzionalisti ed osservatori politici, Salvini e Meloni non hanno saputo associare che cecità politica, ed un autolesionismo, davvero da principianti, continuando a dare indicazione di voto a favore della riforma, come varata dalla maggioranza, sciupando un’occasione aurea per defenestrare definitivamente questo governo e forse la prosecuzione della legislatura.
Intanto il governo si crogiola sulle pie illusioni di poter ottenere una prima trance, di poco più di 20 miliardi( circa il 10% dei previsti 209 miliardi di aiuti), in autunno,inserendo la richiesta nella prossima manovra di bilancio, a seguito del definitivo aggiornamento del quadro macroeconomico.
Ipotesi che il Commissario agli affari economici Gentiloni, in audizione parlamentare, in questi giorni, ha escluso che possano esserci accrediti,sia pure in percentuale minima, prima di aprile-maggio del prossimo anno.
Mentre è opportuno che il Governo non sprechi tempo affinché, entro la metà di ottobre, provveda ad esplicitare le linee guida del nostro Recovery Plan senza le quali sarà difficile varare un piano di riforme e di investimenti credibili ed omogenee, secondo gli obiettivi di impiego “virtuoso” che siano convergenti ai tre pilastri cruciali della green economy, potenziamenti infrastrutturali e innovazione digitale in modo da rendere accessibile a tutto il territorio la connessione veloce ed effettiva.
Anche perché bisogna dare una comune coerenza ai diversi progetti che coinvolgono, in primis, i dipartimenti ministeriali.
Il rischio, come sempre,paventati anche dal Commissario Gentiloni,sta nella pessima consuetudine di frazionare le risorse tra mille rivoli senza un comune denominatore.
Timore che ci espone alle tanto temute verifiche della famigerata Troika, visto che i diversi interventi sono vincolati a precise priorità, anche se temporaneamente sono state ammorbidite le rigidità previste dai Trattati, che ovviamente sono la fonte degli ordinamenti che governano l’azione degli organismi europei.
Peraltro come ben messo in chiaro, durante il Consiglio europeo di luglio, dai leader dei paesi frugali, che su questo versante non hanno inteso cedere di un passo,nonostante la mediazione di Angela Merkel e Emmanuel Macron,
Per la verità è da tempo che la Commissione rivolge “ raccomandazioni” al nostro paese perché avviasse senza perdere ulteriore tempo un piano di rinnovamento e di rilancio con investimenti green, una transizione energetica ed infrastrutturale, il potenziamento della rete digitale, la semplificazioni delle procedure burocratiche ed amministrative,la riduzione della pressione fiscale, a cominciare dagli oneri sul lavoro, la lotta all’evasione fiscale, una rimodulazione strutturale della spesa corrente, una drastica riduzione dei tempi della giustizia civile e penale, il risanamento della finanza pubblica.
E mentre i diversi responsabili del Governo, tra cui il Ministro Amendola, stanno provando a rassicurare l’opinione pubblica dell’efficienza e serietà del lavoro preparatorio per predisporre il piano di interventi” Recovery plan” in vista dell’impiego delle ingenti risorse che l’Ue ci ha messo a disposizione, non mancano severe critiche da autorevoli esponenti del mondo economico, da Carlo Bonomi,presidente di Confindustria a Francesco Giavazzi.
Molto forti i rilievi di tipo metodologico che l’esimio economista ha lanciato dalle colonne del Corriere della Sera: secondo il quale appare abbastanza discutibile l’aver affidato un compito così delicato, essendo tra l’altro un occasione davvero unica,al comitato interministeriale, ossia un organismo composto da ministri in carica, su cui pare legittimo nutrire qualche dubbio sulla qualità delle competenze specifiche, non risparmiando critiche neanche alle strutture dei dicasteri coinvolti in quest’opera di definizione del piano di investimenti.
Ammonendo tra l’altro i responsabili ministeriali a non lasciarsi andare alle solite abitudini di rispolverare vecchi progetti dai cassetti.
Rischio molto concreto dato che nei nostri ministeri la cultura della progettazione da tempo è stata abbandonata.
Mentre essenziale appare il ricorso alle migliori intelligenze progettuali, peraltro attingendo anche dalla relazione Colao, che stranamente è stata accantonata,e, noi aggiungiamo anche dal consuntivo di idee e proposte che si è ricavato nel corso dei recenti Stati generali per cogliere le reali necessità dell’economia e del Paese.
Insomma si auspica una fase nuova che in linea con le indicazioni delle Istituzioni europei e il vero fabbisogno del Paese, possa favorire l’individuazione di una serie limitata di obiettivi priorità e progetti fattibili.
E in questo spirito di maggiore attenzione all’obiettivo di piena occupazione rispetto alle dinamiche dell’inflazione, la decisione, di qualche giorno fa,annunciata dal suo presidente Jerome Powell di una politica economica ancora più espansiva così da non demonizzare più un aumento del tasso di inflazione oltre il 2%( quindi si ammette per la prima volta uno sforamento della soglia del 2% obiettivo che d’ora in poi va valutato non più come limite fisso ma nella media)in particolare, in questo momento, guardando ad una maggiore e più opportuna flessibilità nella governance della stabilità dei prezzi capace di garantire obiettivi di massima occupazione in un trend temporale in cui il livello dell’inflazione può essere tenuto a bada entro un range di maggiore elasticità se inserito in un quadro di obiettivi di massima occupazione e dare forte stimolo all’economia ed evitare una pericolosa stagnazione
Insomma l’idea è secondo Powell che per dare forte stimolo all’economia ed uscire dalla recessione “un mercato del lavoro robusto può essere sostenuto senza generare un’esplosione dell’inflazione”.
Del resto non diversamente poteva rispondersi perché, come ha proseguito Powell “questa innovazione riflette esplicitamente le sfide poste alla politica monetaria da una situazione di tassi di interesse persistentemente bassi”
L’auspicio è che anche la Bce possa proseguire nella politica lungimirante avviata da Mario Draghi con tutte le misure di ulteriori sostegni, come anche la nuova presidente Lagarde sta facendo, dopo un primo scivolone mediatico, per stimolare nel migliore dei modi la crescita delle economie del quadrante europeo.
E ci auguriamo che la nuova strategia della Fed con la coraggiosa svolta di questi giorni nella politica monetaria della Fed nel fronteggiare in diverso modo, dando priorità agli obiettivi di piena occupazione, i contingenti fenomeni inflazionistici, avvii un diverso approccio alle rigidità del sistema degli interventi e degli aiuti, concedendo margini di maggiore elasticità ai singoli Stati, pur nel quadro dei comuni obiettivi, volgendo invece più attenzione a quei fenomeni di elusione o di facile aggiramento delle regole,come con sfacciata doppiezza sono riusciti a fare paesi come l’Olanda il Lussemburgo e l’Irlanda, che hanno creato, a latere,sistemi di veri e propri paradisi fiscali.
E intanto con la riapertura delle Camere, abbiamo registrato, finalmente, l’opportuna presa di posizione della presidente del Senato,Casellati,con cui ci assicura di una maggiore vigilanza del “Legislativo” sulle attività del Governo,smentendo il presidente della Camera Fico,(che aveva respinte le tante critiche che erano piovute su un certo allentamento e qualche disattenzione dei lavori parlamentari) lanciando un preciso e chiaro monito affinché il Parlamento non restasse più “invisibile” come in questi mesi passati.
Su questo delicato versante,in una più ampia prospettiva,registriamo la ferma presa di posizione del Capo dello Stato che, pur apponendo la firma sul Decreto semplificazioni, convertito dalle Camere , non ha mancato di rilevare la crescente anomala tendenza ad usare i Decreti legge per farvi confluire,durante l’iter parlamentare, norme e modifiche su materie eterogenee, come si ricava nel caso del Decreto in questione, contenente tra l’altro, modifiche al Codice della Strada, che per nulla avevano bisogno di una trattazione d’urgenza, pertanto fuori dai requisiti e i presupposti, tipici della materia, che aveva ad oggetto la semplificazione nel settore della PA, per la quale si era resa necessaria la decretazione d’urgenza.
Invitando altresì Governo e Parlamento a non trasfigurare la natura di questo strumento costituzionale.
E allora, una ragione in più affinché con la ripresa ordinaria delle attività delle Commissioni parlamentari possiamo attenderci che il severo monito del Presidente della Repubblica sia coerentemente messo in pratica a cominciare dal ricorso ai Dpcm, tutte le volte in cui si dovesse andare ad incidere sulla sfera di libertà della persona..
Come ci auguriamo che in queste ultime battute l’esecutivo, impegnato nella Conferenza Stato-Regioni, riesca a ben definire le linee guida per i trasporti, ove il disorientamento e la confusione l’han fatta da padroni: per i tanti messaggi contraddittori sui media in riferimento alle percentuali di capienza e alle durate dei tragitti.
Intanto sulla scuola sembra ancora aleggiare tanta confusione,non essendosi sciolto del tutto il nodo delle mascherine in classe( per le diverse accidentalità e variabili che in un contesto così dinamico e difficilmente governabile in rapporto alla inadeguatezza delle strutture e la capienza delle aule)e delle modalità di svolgimento della lezione (dove già registriamo, tra istituti della medesima provincia un vero bailamme sulla data di inizio delle lezioni) dato che non tutti gli istituti hanno aule capienti, secondo le regole del distanziamento, dovendo, in questi casi, inevitabilmente ricorrere ai doppi turni o in alternanza tra didattica in presenza ed on line, con tutti i problemi della scarsa efficienza della rete nazionale, che allo stato delle cose, come ci ha dimostrato il periodo delle lezioni in lockdown, non riesce a raggiungere efficacemente tutto il territorio, oltre ad una non marginale parte della popolazione che non possiede i supporti informatici necessari.
Ma la tensione nella maggioranza in queste ore non pare ai minimi termini perché non si riesce a trovare un’intesa sui Decreti Sicurezza e ius culturale e soprattutto sul ricorso al Mes, dove il braccio di ferro tra M5S, che non lo vuole e Pd che lo vuole.resta ancora intenso.
E poi tutte le questioni connesse alla riforma della legge elettorale che Zingaretti accelerare per avere un segnale immediato che giustifichi le sue disinvolte giravolte sul tagli dei parlamentari, passando inusitatamente dal No al Si.
Dialogo che fa registrare alti e bassi nella diffidenza generale con cui i 5S trattano tale approccio( ne è prova il modo con cui hanno lasciato sulla graticola la proposta del Pd di alleanze stabili in tutto il territorio, con il solo contentino del sostegno comune alla candidatura a Governatore di Ferruccio Sansa, in Liguria)rendendo ancora più difficile il lavoro di “normalizzazione” da parte di Zingaretti per riportare all’ovile i tanti dissidenti interni che non ne vogliono sapere di votare Si, al referendum,per disciplina di partito, nel timore di vedersi poi ostaggio di una vittoria di cui ne menerebbero vanto e gloria solo i 5S facendo ancor più pesare nel piatto, al momento del riesame della nuova legge elettorale e di buona parte dell’agenda di governo, anche se non sempre sarà facile agli uni ed agli altri superare le sottili capacità di mediazioni del premier, che non vuole demordere dal suo obiettivo di arrivare a fine legislatura.
Luigi Rapisarda